Ma verità giudiziaria e verità storica non sempre coincidono – parte 2

Secondo Gnosis, il periodico dell’intelligence civile, dal secondo dopoguerra al 2007 nei servizi segreti italiani si sono registrate almeno 15 “grandi deviazioni”. “Bussate e vi sarà aperto, fuori c’è nebbia fitta calante.”

Il ruolo giocato dall’UAR (nata sotto il ministro dell’Interno Mario Scelba come Divisione Affari Riservati, con il compito di coordinare il lavoro degli uffici politici delle questure) nella strategia della tensione è una pagina ancora da scrivere. A guidare gran parte delle operazioni fu un funzionario destinato a una folgorante e lunga carriera: Federico Umberto D’Amato. E allora? Quali meriti aveva acquisito agli occhi di ministri come Taviani, Rumor e Restivo, per riuscire ad assumere un ruolo di tale rilievo? Nato a Marsiglia, iscritto al disciolto Partito Fascista, D’Amato prestò giuramento alla Repubblica Sociale Italiana. Dopo l’8 settembre 1943, grazie ai buoni uffici di James Angleton, divenne uno degli ufficiali di collegamento fra la polizia italiana e i servizi segreti americani. Lo stesso generale Harold Alexander (comandante militare di tutte le forze alleate in Italia) inviò a D’Amato i suoi riconoscimenti per l’importante contributo offerto agli angloamericani.


Tuttavia, si sa che l’UAR, all’epoca (1969-1970), aveva allacciato rapporti molto ambigui con movimenti extraparlamentari di estrema destra.

Il Movimento Sociale Italiano (MSI) fu un patrimonio di fede, pensieri, idee e progetti che inquietò il potere democristiano e comunista.
Gli eterni vizi della destra — nostalgismo, frazionismo, leaderismo, il richiamo del “ghetto”, la “fiera delle occasioni” — impedirono l’evoluzione del MSI.
Il lungo assedio, il sangue dei caduti, il sacrificio di tanti attivisti diedero nuova forza e orgoglio a un’intera comunità. La lunga e dolorosa traversata attraverso gli Anni di Piombo non fu inutile. Negli anni Ottanta sembrò possibile superare vecchie logiche e linguaggi desueti e passare, finalmente, “dalla protesta alla proposta”. Ancora una volta, il mondo giovanile ritrovò un ruolo d’avanguardia e, timidamente, prese forma un partito differente e competitivo.
Ma le antiche malattie del neo- o postfascismo impedirono ogni evoluzione positiva, e il MSI-DN si perse in dibattiti lunari e inutili. Agli inizi degli anni Novanta, la fiamma era ridotta a un lumicino. Poi arrivarono Tangentopoli, Berlusconi, Fiuggi: un’altra storia, sicuramente confortevole ma non gloriosa.

“Aver raccolto viva una voce nel vento dei millenni, aver inteso in un bell’occhio antico l’inviolabile fiamma del suo sogno, aver bussato senza iattanza a porte che s’aprono soltanto ai cuori liberi, non era vanità”, cantava Ezra Pound.

I prodromi della strategia della tensione, secondo Vincenzo Vinciguerra, furono il convegno dell’Hotel Parco dei Principi del 1965 e, nel 1966, l’Operazione manifesti cinesi.
Questa strategia era teorizzata in una dispensa di un corso di guerriglia, intitolata Notre action politique, scritta da Yves Guillou, alias Yves Guérin-Sérac, capitano nelle guerre di Indocina, Corea e Algeria, militante dell’organizzazione paramilitare clandestina OAS, fondatore e direttore della Aginter Press.
Questo periodo fu caratterizzato dalla commistione di un terrorismo di destra e di sinistra, e del terrorismo di Stato.

Nel contesto storico, l’espressione «strategia della tensione» apparve per la prima volta in un articolo del giornalista Leslie Finer, il 7 dicembre 1969, solo cinque giorni prima della strage di Piazza Fontana. Nello scritto, basato su alcuni documenti segreti dell’MI6 (il servizio segreto britannico), sottratti all’ambasciatore greco in Italia, Finer parlava di una strategia politico-militare degli Stati Uniti, spalleggiata dal regime dittatoriale dei colonnelli greci, tesa a orientare certi governi democratici di alcune nazioni dell’area mediterranea attraverso una serie di atti terroristici, con lo scopo di favorire l’instaurazione di regimi e dittature militari.

Nella fattispecie italiana, sempre secondo il giornalista inglese, sarebbe stato in atto un piano che coinvolgeva l’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Il piano mirava a promuovere una repubblica presidenziale e ad innalzare il livello dello scontro tra le forze sociali già in atto in quel tempo, con l’obiettivo di imporre una chiara svolta politica reazionaria.

Un giudizio critico sul termine “strategia della tensione” fu espresso dal generale e studioso di questioni militari Ambrogio Viviani, che scrisse che i cosiddetti depistaggi costituivano semplicemente informazioni incomplete, poiché gli informatori non potevano accedere a tutti i dettagli delle organizzazioni in cui erano infiltrati. Inoltre, le cosiddette protezioni degli stessi erano una prassi comune a tutti i servizi segreti del mondo.

“Questo Paese non si salverà se non nascerà un nuovo senso del dovere.”
— Aldo Moro

Dunque, Moro, pur in modo sfumato e dubitativo, usava l’espressione nel senso «misto» di cui si parlava all’inizio: come strategia promossa da un soggetto, ma sulla quale si sono verificate sovrapposizioni di altri attori dotati di interessi propri. Parallelamente, la formula conosceva una crescente fortuna, comparendo anche nel linguaggio di giornali moderati o di centro, e persino in documenti ufficiali, pur con significati di volta in volta modificati.

Ma che cos’è, in realtà, quest’ordine pubblico di cui in Italia abbiamo persino perduto la memoria? Ordine pubblico significa difesa della libertà di pensiero, di parola e d’azione dei cittadini, tutela delle imprese e del patrimonio, osservanza e salvaguardia delle norme che regolano la civile convivenza. In altre parole, è la difesa dei corpi istituzionali della Repubblica da quanti, in Italia o altrove, li combattono con le armi o cercano di sovvertirli.

Tutto ciò che stava succedendo allora è determinato da scelte e prese di posizione assunte negli anni Sessanta. Quando il generale De Lorenzo, deludendo le aspettative del suo ministro (Andreotti), si pose a disposizione del segretario della Democrazia Cristiana, Aldo Moro.

L’elezione di Segni segnò l’inizio di un feroce scontro tra i diversi rami dei “servizi”, che influenzavano le varie correnti della DC. Fu a quel punto (nel 1964) che Rumor, sorprendendo i capi della DC, si inventò la candidatura di Saragat. Sul personaggio, pilotati da Amendola, confluirono persino i voti dei comunisti. È certo, tuttavia, che Saragat ottenne il nulla osta dei servizi segreti americani, tanto che fallì il tentativo esercitato da Moro, che aveva proposto il nome di Cesare Merzagora (legato agli Agnelli).

Due anni dopo l’elezione di Saragat, improvvisamente Andreotti venne rimosso dal Ministero della Difesa. L’operazione fu condotta in gran segreto da Moro, presidente del Consiglio, e da Rumor, segretario politico della DC. Andreotti non digerì questa degradazione. Poco dopo, lo scandalo SIFAR scoppiò in tutta la sua virulenza. Sulla stampa, qualcuno sospettò che fosse stato il Divo Giulio a fornire a Saragat (o, meglio, al Barone Malfatti) il dossier sul generale De Lorenzo.

Gli americani fecero giungere sul tavolo degli interessati le fotocopie delle informazioni raccolte da De Lorenzo sulle molte ombre che avviluppavano Saragat, fuoriuscito a Parigi, e sul vizio segreto di Rumor e Colombo. È importante riflettere su questa guerra segreta tra i politici, perché il nostro regime si regge proprio sull’ipocrisia e sul falso, ecc.

È opinione comune che lo sfascio, prima, e la “riforma”, poi, dei nostri servizi di sicurezza abbiano lasciato pressoché indifeso il Paese di fronte al terrorismo e alla destabilizzazione, le cui connessioni internazionali appaiono sempre più evidenti.

L’ammonimento che scaturisce da questa analisi è che lo stragismo non si può considerare solo un fatto di cronaca o un evento giudiziario. Rappresenta, invece, un pezzo della storia della nostra democrazia. Un Paese civile non deve rinunciare a consegnare alle generazioni future la storia della propria evoluzione.

L’analisi proposta alla riflessione di tutti manifesta l’esigenza di affrontare queste problematiche senza mediazioni, con la più assoluta laicità e liberandosi da qualsiasi pregiudizio ideologico nella valutazione dei dati di conoscenza acquisiti.

A mio giudizio, l’impoverimento del sistema è stato la conseguenza diretta del mancato funzionamento del sistema delle responsabilità. Né si può pensare che il rinnovamento della classe politica possa da solo rappresentare una soluzione salvifica in tale direzione. Non lo può, perché sono rimasti integri gli interessi che si sono rafforzati con quelle deviazioni; non lo può, perché le strutture dello Stato sono destinate a sopravvivere ai governi.

Le inerzie e il deficit di analisi storico-politico-culturale di questi fenomeni hanno comportato per il nostro Paese danni enormi. Hanno indotto una generazione di giovani a credere che contro i tentativi di eversione e le deviazioni istituzionali si potesse reagire adeguatamente solo con il ricorso alla lotta armata. Hanno depotenziato il principio di legalità e aperto la strada a una mistura di illegalità mafiosa, politica ed eversiva, che si è coagulata intorno a una comune ideologia autoritaria. Tale ideologia ha tentato di ridurre, nelle istituzioni, i principi di trasparenza e di controllo democratico, al fine di garantire il mantenimento di rendite illecite e spazi di privilegio.

Sono passati ormai cinquant’anni dal momento in cui quella stagione si è aperta. È giunto il momento di provare a capire cosa possiamo affermare di sapere con certezza dopo così tanto tempo: quali sono le verità raggiunte e quali le piste che ancora si possono aprire. Questo è l’intento di questo elaborato.

Il compito di chi scrive è spiegare e comprendere, ovvero dissolvere i fantasmi che continuano a turbare la vita di un Paese. Lo storico, rendendo vivo il ricordo del passato, permette nello stesso tempo di allontanarsi da esso, di misurarne la distanza e la differenza dall’oggi. In questo modo, il passato si trasforma in un luogo dove ognuno di noi può tornare con più serenità, ricucendo il rapporto tra il presente e la propria storia. Solo così il passato può diventare “amico della vita”, permettendole di andare avanti, di aprire una nuova pagina, di fare tesoro del passato senza però esserne ossessionata.

I minacciosi scenari che si delineano – a partire dall’autunno del 1969 – segnano l’insorgere e il prevalere di una nuova “razza padrona”: personaggi come Cefis, Sindona e Gelli, ecc. Figure che proiettano la loro ombra su un decennio e oltre della vita nazionale, trasformando la politica e le stesse istituzioni dello Stato, ora in una stanza di compensazione, ora in un campo di battaglia per le loro privatissime guerre. Sono figure che si prestano a fare da collante e da interfaccia ai diversi corpi separati che occupano il Paese.

È l’inizio di una contaminazione che si protrae ben oltre la caduta dei singoli personaggi che si succedono sulla scena.

Anni in cui il vuoto di potere e di direzione politica partorisce nuovi e aggressivi padroni, ma evoca altresì forze che, impunite, dipanano strategie criminali e destabilizzanti.

Un osservatore, il giudice Guido Viola, nella sua requisitoria scriverà che l’idea dell’editore Feltrinelli “della possibilità di un colpo di Stato di destra non era, tuttavia, peregrina e fantapolitica (…). La dura repressione (…) non faceva che alimentare e dare corpo alle idee di Feltrinelli”.

Alla luce dei fatti successivi – continua il giudice Viola nella sua requisitoria sulle Brigate Rosse e i GAP – soprattutto dalle inchieste giudiziarie, che vedono coinvolti gli ex vertici dei servizi di sicurezza, l’ossessione di Feltrinelli (poi trovato morto sotto un traliccio a Segrate) non era priva di un certo contenuto di serietà e di fondatezza.

I minacciosi scenari si ritrovano nelle parole della Divisione Affari Riservati del Ministero degli Interni, rivolte agli analoghi uffici di Paesi europei.

Diagnosi, dunque, tempestiva, che coglie comunque l’evoluzione in corso.
Intravede come, nella foresta dell’estremismo che sta crescendo nel Paese, qualcuno abbia deciso di radicare nuove presenze: le formazioni terroristiche. Sono presenze che allignano nell’ombra; come piante carnivore, hanno bisogno, per crescere, del sangue e della vita di vittime innocenti. Sradicare queste presenze sarebbe possibile, prima che vadano a divorare altre esistenze.

Infatti, a G. Andreotti bastano pochi minuti per mettere fine, con un’intervista (rilasciata a M. Caprara su Il Mondo), pilotata con serafica determinazione, alla carriera di Giannettini, alias agente Zeta, e di G. Zicari del Corriere della Sera, entrambi agenti dei servizi. Poi, la struttura Stay Behind (alias Gladio), una rete di sopravvivenza clandestina nata nella massima riservatezza nel cuore dei servizi di sicurezza dello Stato Maggiore.

È strabiliante pensare a questi cospiratori che, per anni, si muovono con disinvoltura nel sancta sanctorum della difesa nazionale. In questo contesto, iniziano gli scontri che alimentano la “guerra dei generali” a colpi di scandali, dossier e soffiate ai giornali. Il capo di Stato Maggiore della Difesa, Aloia, è in guerra contro il generale De Lorenzo, capo di Stato Maggiore dell’Esercito, che in precedenza aveva guidato i servizi di sicurezza e poi l’Arma dei Carabinieri.

Una guerra dove l’arma principale è la parola, affidata a un testo – Mani rosse sulle Forze Armate, firmato da Flavio Messalla – che Giannettini, Rauti e Beltrametti redigono su incarico del generale Aloia contro De Lorenzo. Tuttavia, successivamente, l’ammiraglio Enke chiama il giornalista Beltrametti per bloccare la diffusione del libro, temendo che questo potesse danneggiare le Forze Armate.

A raccontare al giudice milanese i retroscena della stesura di Mani rosse sulle Forze Armate è E. Beltrametti, uno dei tre relatori al convegno dell’Istituto di Studi Storici e Militari “A. Pollio” del maggio 1965. I verbali di quel convegno sono stati successivamente rinvenuti in casa del generale Maletti.

Si tratta di processi impossibili, nei quali un giudice smentisce l’altro, e dove persino i giudici della Cassazione scendono nella mischia, affiancandosi alle tesi e agli interessi in gioco. Lo spettatore si perde nel groviglio di problemi, con la verità sottratta e la giustizia negata.

Per fare luce davvero, bisogna prendere atto che i bastioni edificati contro un nemico ormai cessato di esistere non possono più custodire segreti che, per anni, hanno tenuto in ostaggio la leadership politica di un intero Paese.

Concesso asilo e accordata protezione alle più svariate persone, ecc.

I giorni non sono trascorsi invano: le verità dovranno emergere. “Sono troppe le libertà cui abbiamo rinunciato per essere liberi. Adesso dobbiamo riprendercele” (pagina 297).

Le condizioni di partenza riguardano essenzialmente una sinistra in dissenso rispetto a quella parlamentare, cui si rimproverava di essersi imborghesita. I primi furono i fuoriusciti dal PCI, contrari alla sua evoluzione. Sul piano interno, i marxisti-leninisti criticavano il PCI per la sua collaborazione con i partiti “borghesi”; sul piano internazionale, invece, parteggiavano per la Cina di Mao e per l’Albania di Hoxha, da cui ottennero riconoscimenti e persino aiuti economici.

Intanto, a Pisa si era formato un gruppo attraverso Quaderni rossi, che prese il nome di “Potere Operaio”, applicato poi allo stesso movimento. Adriano Sofri, figura centrale, fu protagonista di un botta e risposta pubblico con Togliatti alla Normale di Pisa; il segretario, provocatoriamente, lo sfidò a fare la rivoluzione se ne fosse stato capace. Sofri rispose: “Ci proverò, ci proverò”. Espulso dal PCI nel 1966 per “indegnità politica e frazionismo”, Sofri aveva elaborato delle Controtesi in alternativa alla piattaforma ufficiale del PCI al congresso. Successivamente, divenne leader di Lotta Continua. Secondo Oreste Scalzone (nel volume Biennio rosso, Sugarco), furono decisive le capacità personali di Sofri nel favorire la conversione operaista degli studenti, soprattutto dopo il suo trasferimento a Torino.

Nel panorama della destra si distinguevano due partiti, il MSI e il PDIUM, oltre ad alcune frange extraparlamentari, principalmente le organizzazioni Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, che però avevano caratteristiche diverse. Successivamente, nel 1968, nacque il Fronte Nazionale di Borghese.

La magistratura dell’epoca era inesperta in materia di terrorismo ed eversione. Inoltre, vi era un problema strutturale: la frammentazione delle indagini tra le varie procure sparse sul territorio, mentre le forze di polizia erano scarsamente coordinate. Gli Affari Riservati, dal 1963, subirono numerosi cambiamenti ai vertici e riassetti; tuttavia, il vicecapo Federico D’Amato rimase al suo posto, considerato l’“uomo forte” degli Affari Riservati fino alla soppressione della struttura nel 1974. D’Amato assunse anche ruoli che formalmente spettavano al capo della polizia, Angelo Vicari.

Gli Affari Riservati non avevano compiti operativi; i loro terminali sul territorio erano gli uffici politici delle questure. È stato ipotizzato che D’Amato avesse creato in molte città una rete di squadre “coperte” parallela e illegale. Il Ministro Taviani, nel suo libro In politica a memoria d’uomo (cit. pag. 401-402), riferisce di essere stato interrogato dalla Commissione Stragi a riguardo e di aver espresso incredulità su tali ipotesi.

Negli anni Settanta, D’Amato fu oggetto di attacchi di matrice politica, principalmente da parte della corrente socialista guidata da Giacomo Mancini, senza che venissero fornite valide prove a suo carico. All’epoca della scoperta degli elenchi della loggia massonica P2, il nome di D’Amato vi compariva.

I risultati elettorali delle elezioni politiche del maggio 1968 e l’avvio di un intenso ciclo di proteste sociali contribuirono a rendere problematica la continuazione del percorso intrapreso dai partiti della maggioranza di centro-sinistra. Le opposizioni di sinistra, invece, si rafforzavano. Di qui la “strategia dell’attenzione” (come Moro stesso la definì), volta a considerare le istanze di rinnovamento della società e i contributi dell’opposizione comunista in Parlamento. Nel frattempo, nella società stava emergendo un ciclo di proteste senza precedenti.

Al tempo della strage di Piazza Fontana, il governo in carica era un monocolore democristiano, e il Presidente del Consiglio era Mariano Rumor. Nei suoi diari, egli descrisse quel governo in maniera incisiva:

“Guidavo un governo geneticamente debole (…) Ogni partito del centro-sinistra lo appoggiava, ognuno per conto suo (…) Se non avessi avvertito in modo netto che senza quel governo saremmo entrati in una situazione caotica, il cui sbocco erano le elezioni politiche, che in quel momento avrebbero fatto soltanto il gioco del PCI, io avrei abbandonato”. (M. Rumor, Memoria, Neri Pozza, 1991).

Fra le tante ipotesi giudiziarie, giornalistiche e storiografiche ventilate intorno all’impostazione delle indagini su Piazza Fontana, quella relativa alla sussistenza di un patto segreto e inconfessabile tra due cordate, capeggiate rispettivamente dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat (di orientamento filoamericano) e dal Ministro degli Esteri Aldo Moro, è tra le più significative in relazione alle alte sfere politico-istituzionali.

Inoltre, come si vedrà, la vicenda coinvolgerebbe anche il Presidente del Consiglio Mariano Rumor e rappresenterebbe il movente nascosto dell’attentato contro di lui, compiuto nel 1973 da Gianfranco Bertoli.

L’idea che la verità su Piazza Fontana sia stata celata mediante un patto tra le massime istituzioni fu esposta in un volume intitolato Il segreto della Repubblica, firmato da Walter Rubini, pseudonimo dell’ex partigiano Fulvio Bellini. L’opera fu riscoperta negli anni ’90 dal giudice istruttore Guido Salvini, che le diede credito e la utilizzò in sede di ricostruzione dei fatti, anche se i risultati ottenuti furono deludenti sia per l’accusa sia per altri interessati alla vicenda.

Il 12 gennaio 1970, l’ambasciatore statunitense Graham Martin, in un telegramma indirizzato al Dipartimento di Stato e alla Casa Bianca, riferiva di avere “segnali continui che si stesse andando allo scioglimento del Parlamento e a elezioni anticipate”, attribuendo tale prospettiva a Saragat e Rumor. Il 7 febbraio 1970, Rumor rassegnò le dimissioni.

A destra, tra il 1970 e il 1973, il MSI proseguì lungo la linea tracciata dal nuovo segretario Giorgio Almirante nel 1969. Il partito aumentò considerevolmente i suoi voti nelle elezioni amministrative del 1971 e nelle politiche del 1972.

A sinistra, il PCI, fino all’autunno del 1973, mirò principalmente a rafforzarsi. Tuttavia, con Enrico Berlinguer, il PCI elaborò un’importante novità: la strategia del compromesso storico, trasformandosi sempre più in un partito di governo e sempre meno in un partito di lotta.

Il continuo peggioramento dell’ordine pubblico stimolò un ampio dibattito a tutti i livelli agli inizi del 1971, anche a partire dal rapporto intitolato Situazione dell’ordine pubblico – Formazioni estremiste extraparlamentari, trasmesso il 22 dicembre 1970 dal prefetto di Milano, Libero Mazza, al ministro dell’Interno Franco Restivo. Dopo aver parlato due volte con il ministro, Mazza riferì che questi gli disse:

“Cosa vuole che faccia con un Parlamento come quello che abbiamo, con un Presidente del Consiglio (Colombo) incapace di prendere una decisione…”

La relazione rimase lettera morta, ma uscì a metà aprile 1971 su alcuni giornali. Il rapporto fece scalpore, e il 30 aprile 1971 furono presentate ben quindici interrogazioni parlamentari sul cosiddetto Rapporto Mazza. Tuttavia, il ministro Restivo cercò di placare le polemiche gettando acqua sul fuoco.

Le offensive contro la Repubblica portate avanti dalla destra tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 seguirono strade diverse.

A destra, l’eversione era concepita in maniera più verticistica rispetto alla sinistra. I golpisti confidavano nei militari, non nelle masse operaie e studentesche. La primogenitura spetterebbe al piano di emergenza per l’ordine pubblico passato alla storia come Piano Solo, approntato dal generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo.

Un’azione meno evanescente fu quella messa in atto nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 da Junio Valerio Borghese, capo dell’organizzazione denominata Fronte Nazionale, fondata nel 1968. I preparativi del Golpe Borghese erano più o meno noti ai servizi segreti italiani e statunitensi già circa un anno e mezzo prima, eppure i cospiratori non vennero fermati. Perché?

Le trame golpiste successive al Golpe Borghese furono La Rosa dei Venti e il Golpe Bianco di Edgardo Sogno (anch’egli nella lista della P2, ex partigiano monarchico, in contatto diretto con il centro dell’OSS di Berna guidato da Alan Dulles). Tuttavia, tutte queste trame si fermarono allo stato embrionale.

Tra gli episodi significativi della storia italiana vi è il cosiddetto Golpe Bianco. Tutto iniziò nel 1974 con il tenente colonnello Giuseppe Condò, militare del SIOS Esercito, incaricato di una missione: infiltrarsi in un ambiente eversivo, i salotti nobiliari della contessa Maria Antonietta Nicastro. Qui raccolse le confidenze dirette di un indomabile anticomunista, il conte Edgardo Sogno Rata del Vallino di Ponzone.

Monarchico e partigiano, Sogno fu uno spericolato eroe della Resistenza: durante la guerra, travestito da nazista, si intrufolò nel quartier generale delle SS a Milano per tentare di liberare Ferruccio Parri. Tuttavia, venne scoperto, fatto prigioniero, torturato e mandato in un campo di concentramento. Sopravvisse, e dopo la caduta del nazifascismo divenne un valente diplomatico.

Intraprese poi una lotta perenne contro il comunismo, che avversava con tale impeto da farne la sua ragione di vita. Nel 1974, Sogno sosteneva che fosse necessario agire senza esitazioni: spiegò a Condò che serviva una svolta politica autoritaria, seguita da riforme che, alla fine, corrispondevano al Piano di Rinascita Democratica della P2, alla quale risultò iscritto.

Il tenente Condò prende nota e invia le sue relazioni ai superiori. Il dossier arriva al generale Vito Miceli, capo del SID, un altro anticomunista “paranoico in senso clinico” e piduista della prima ora: fu lo stesso Licio Gelli a piazzarlo al vertice del Servizio Segreto nel 1969, tramite il ministro Tanassi.

Nel luglio dello stesso anno giungono sul tavolo di Andreotti, allora Ministro della Difesa, due relazioni: una è quella promossa direttamente da Andreotti, relativa al Golpe Borghese, redatta dal generale Gianadelio Maletti e dal capitano Antonio Labruna, che dimostra il coinvolgimento del generale Miceli nei fatti del 1970. Tuttavia, Miceli, nel frattempo, ha già consegnato ad Andreotti un’altra relazione, questa volta sul Golpe Bianco, contenente diversi nomi, soprattutto di militari, ma anche di politici. Come agire?

Andreotti decide di diramare strette misure anti-golpe, silura Miceli e sostituisce diversi generali. A settembre, Miceli finisce sotto accusa e, in ottobre, viene arrestato con l’accusa di cospirazione.

Il dossier sul Golpe Bianco arriva alla Procura di Torino nello stesso periodo. Se ne occupa il giudice Luciano Violante, che, dopo aver studiato le carte, decide di convocare il teste principale, il tenente Condò. Il 2 novembre 1974, Violante comunica ai capi del SID di volerlo interrogare. La risposta arriva il 17 novembre: non è possibile, poiché l’ufficiale, improvvisamente ammalatosi, è morto in ospedale qualche giorno prima, il 12 novembre.

Violante prosegue con l’inchiesta, ma una lettera anonima su Gelli gli segnala alcune “coincidenze” tra il Venerabile e l’indagine. La pista si sposta, e il focus si concentra sui finanziamenti a Sogno. Clamorosamente, Violante punta a mettere sul banco degli imputati Gianni Agnelli come presunto capo dell’eversione. Si scopre infatti che la FIAT aveva finanziato Sogno con centinaia di milioni di lire, dal 1971 fino all’estate del 1974. Tra questi, assegni circolari per 187 milioni di lire dalla S.p.A. FIAT, 12 milioni dall’Unione Industriale di Torino e versamenti in contanti per complessive 136 milioni di lire.

Quando viene interrogato, l’avvocato Agnelli, visibilmente sdegnato, scarica la responsabilità sul suo subalterno, l’avvocato Chiusano, responsabile dei finanziamenti. Sentito a sua volta, Chiusano si dichiara all’oscuro di tutto e afferma che i fondi della FIAT, pari a 6-7 milioni al mese, erano destinati al Partito Liberale. Peccato, però, che Sogno, pur essendo iscritto al PLI, avesse versato al partito, in quegli anni, appena 100.000 lire.

Violante non riuscirà a portare avanti la sua inchiesta, che gli sarà sottratta e confluirà nell’istruttoria romana sul Golpe Borghese.

Anni dopo, il 6 aprile 1993, Luciano Violante, ormai presidente della Commissione Antimafia, approverà una relazione in cui si fa riferimento ad Andreotti per i suoi presunti rapporti con la mafia.

A sinistra, quegli anni furono caratterizzati da un forte incremento della violenza e del terrorismo. Persino Aldo Moro cambiò opinione, dichiarando:

“È ora di bandire gli eccessi, arrestare la disgregazione del Paese e il dilagare della violenza. Siamo ancora in tempo per cambiare.”

Queste parole furono pubblicate sul quotidiano Il Giorno.

Secondo l’allora ambasciatore statunitense in Italia, Richard Gardner, Moro gli avrebbe confidato, durante un colloquio, che riteneva il terrorismo brigatista “il principale pericolo per il futuro politico dell’Italia” (R. Gardner, Mission: Italy, Mondadori, Milano, 2004).

Il PCI, anch’esso sempre più preoccupato, avviò una ricerca approfondita sul fenomeno del terrorismo.

L’eccidio del magistrato Mario Sossi nel 1974, che presenta numerose analogie con il sequestro di Aldo Moro del 1978 e la sua tragica conclusione il 9 maggio seguente, costituì il culmine della lotta armata che le Brigate Rosse conducevano ormai da molti anni e proseguirono per altri anni. Il caso Moro non fu affatto un’anomalia, né una parentesi, né una deviazione nel percorso del brigatismo rosso.

Inoltre, le speculazioni intorno al memoriale di Moro hanno coinvolto anche l’omicidio del giornalista di OP, Mino Pecorelli.

La deficitaria prestazione delle strutture operative durante la vicenda Moro pose allo Stato l’imperativa esigenza di riorganizzarsi e attrezzarsi meglio. Il più importante provvedimento in questo senso fu il conferimento al generale Carlo Alberto dalla Chiesa di un nuovo incarico: la ricostruzione dei nuclei speciali dei carabinieri (di cui faceva parte il suo amico fraterno Franco Spanò), già creati una prima volta nel 1974, poi trasformati e passati ad altre mani. Il generale avrebbe riferito “direttamente al Ministro dell’Interno”.

In Parlamento, le critiche più significative furono mosse dai radicali e dai socialisti della corrente capeggiata da Giacomo Mancini.

I reparti di dalla Chiesa agivano senza vincoli territoriali sul territorio nazionale e introdussero l’uso della cosiddetta “balena”. Grande attenzione venne dedicata alla mimetizzazione, intesa come insieme di accorgimenti tecnici, procedurali e logistici per impedire ai brigatisti di riconoscere i loro avversari.

“I nostri reparti dovevano vivere la stessa vita clandestina delle Brigate Rosse. Nessun uomo fece mai capo alle caserme, ecc.”

Per motivi di riservatezza, gli uomini di dalla Chiesa venivano sostituiti da altri carabinieri nella firma degli atti relativi alle operazioni da loro compiute, in modo da non dover comparire in tribunale durante i processi corrispondenti.

Una tattica spesso associata al nome di dalla Chiesa è quella dei cosiddetti “rami verdi”, di cui una volta illustrò i pregi in audizione davanti alla Commissione Moro.

Il generale segnalava altresì il pericolo costituito dalla posizione di “centralità” e “equidistanza” tra eversione e Stato assunta da molti “intellettuali” o firme autorevoli, che diffondevano simili idee. Dalla Chiesa sottolineava il seguito che queste trovavano negli ambienti universitari, dove l’elaborazione dottrinaria spesso si trasformava in elucubrazione o in esaltazione.

“Contro questi elementi, taluni dei quali innestati in ambienti più che qualificati, bisognava orientare senza remore e senza infingimenti la più decisa azione di polizia.”

Le lamentele di dalla Chiesa per la scarsa attenzione data ai suoi suggerimenti si estesero all’intero decennio degli anni ’70.

Purtroppo, da parte degli “apparati politici ed istituzionali” vi fu una scarsa reattività.

Nel dicembre del 1979, le Sezioni Speciali Anticrimine furono sciolte, e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa andò a comandare la Divisione Pastrengo dell’Arma, come desiderava. Alla fine del 1981, divenne vicecomandante dell’Arma.

Dopo la vicenda Moro, le Brigate Rosse attraversarono un periodo di profonde crisi interne. I conflitti portarono allo sfaldamento dell’organizzazione, che, dal 1980 in avanti, cessò di essere unitaria.

Avrebbero dovuto essere i “servizi” a difesa degli interessi nazionali. Invece, si sono dimostrati strutture votate all’insicurezza, enti preposti al depistaggio e alla deformazione della verità. Hanno portato il Paese in una situazione di eversione permanente. Ecco perché in Italia non esistono più segreti.

Abbiamo dovuto inventare il concetto di “servizi deviati” affinché l’opinione pubblica potesse immaginare l’esistenza di due volti contrapposti della sicurezza interna: uno a difesa delle istituzioni, l’altro al servizio di chissà quali entità esterne, malvagie e misteriose.

La regola non scritta è la consegna del silenzio; intere generazioni di politici italiani sono stati soggiogati dalla minaccia che qualcuno dei servizi potesse parlare.

Sono questi gli elementi che da sempre accompagnano il corso della vita sociale, economica e politica del Paese.

Certo, non mancano le eccezioni. A testimoniarlo, per esempio, il sacrificio dell’amico Nicola Calipari, il generale del Sismi, ucciso da soldati americani a Baghdad nel marzo 2005.

Secondo Gnosis, il periodico dell’intelligence civile, dal secondo dopoguerra al 2007 nei servizi segreti italiani si sono registrate almeno 15 “grandi deviazioni”.

Bussate e vi sarà aperto, fuori c’è nebbia fitta e calante.

La nuova generazione di scrittori che si occupa del terrorismo non è più formata da testimoni diretti di quell’epoca. La loro rielaborazione non nasce dalla partecipazione diretta, ma dalle suggestioni, dalle immagini televisive, dagli articoli o dalle inchieste dei giornali, che spesso distorcono la realtà.

Appare evidente che la percezione degli “anni di piombo” oggi è cambiata con il passare del tempo. È possibile guardare a quel periodo con una visione d’insieme, ma ci sono dei tasselli che nascondono questioni ancora irrisolte e che necessitano di un’ulteriore autocritica, capace di separare dal reale ogni tipo di invenzione o falsità.

La presente ricerca evidenzia che è stato proprio negli anni Duemila che, nell’ambito della letteratura civile, ci si è resi conto dell’esistenza di un profondo squilibrio tra le testimonianze provenienti da coloro che avevano fatto la lotta armata e quelle delle loro vittime.

È stato allora che la società italiana ha dimostrato una grande maturità e civiltà, non accontentandosi della verità ufficiale o adagiandosi su atteggiamenti di moda, ma tornando a interrogarsi, a indagare, a fare i conti con il passato con rinnovate energie.

Ciò non toglie che dalle apportazioni di entrambe le parti emerga un ritratto della società italiana dell’epoca estremamente crudo, tempestato da una lista interminabile di errori commessi dalle istituzioni, dai partiti politici, dai sindacati, dai mass media e da tutta la società civile.

La sensazione attuale è che la memoria storica degli anni Settanta resti tuttora divisa, tra due o più versioni contrapposte, che non possono dirsi rappresentative di una memoria nazionale.

Pertanto, i tentativi fatti dimostrano anche che la memoria di quegli anni comincia ad essere condivisa. Si tratta di un cammino ancora lungo da percorrere, ma i passi che sono stati fatti in ogni ambito—istituzionale, sociale ed artistico—lasciano la porta aperta alla ricostruzione di una memoria storica condivisa, o almeno condivisibile, sugli “anni di piombo”.

Non bisogna mai esaurire un argomento al punto

che al lettore non resti più nulla da fare. Non si

tratta di far leggere Ma di far pensare. C-L De Montesquieu,