14 Luglio 1970 – La Rivolta di Reggio Calabria e le Barricate della Memoria – Prima parte

Premesso: cosa sanno i giovani, o meno giovani, di oggi della “Rivolta di Reggio”? Credo poco, anche se è difficile pensare che non ci sia qualcuno di loro che non abbia avuto un parente, un amico, in qualche modo coinvolto nella “storia” di quei giorni. In quel contesto riuscivano ad apprezzare ed interpretare, nel modo corretto e nella sua reale portata, i veri motivi della rivolta.

Perciò, possiamo dire che è stato anche un laboratorio politico e strategico, in cui molte persone, successivamente, si sono inserite nelle istituzioni, nella politica, ecc.

Dalla rivolta alla centralità dell’uomo.
Ecco perché mettersi a scrivere è un attraversare il portale oltre il quale le parole attendono di rendere reale l’impraticabile. Il mio sguardo è quello del “testimone”, cioè di colui che, in virtù di coincidenze casuali, diventa depositario di un tratto di verità.

Quindi, conoscere la Rivolta, e in genere, significa stabilire una comunione cosciente e vitale con il reale. Salva l’uomo dalla sua limitazione e lo apre fino ai confini stessi del sapere. Perciò, sono chiamati a essere saggi, sapienti, a godere della realtà – conoscendola, diceva R. Panikkar.

Io proseguo il mio viaggio. E voi?
Il mio compito, carissimi, è di osservare la realtà e descriverla nel miglior modo possibile, affinché chi va a ‘scegliere’ si regoli.

Le tante lacrime di Reggio, quando la città precipitò nel buio… Non c’è niente da celebrare, solo il commosso ricordo dei tanti partecipanti. Questi 54 anni sono trascorsi senza lenire le lacrime e le ferite di una città abbandonata, sola e ferita, “ricompensata” con la sede del Consiglio regionale e con tante promesse mai più mantenute.

Come e perché successe? Chi veramente saprà dircelo?
Il punto principale, a ben vedere, è che è stata una lotta tra calabresi, dove antiche rivalità tra la città dello Stretto e Catanzaro sono emerse per responsabilità di politici distratti e assenti, forse troppo occupati a coltivare il proprio serbatoio elettorale, piuttosto che ragionare in termini positivi, per il bene comune, per il benessere dei calabresi e della loro terra.

L’accordo contro la città, firmato al ristorante «La Vigna dei Cardinali» a Roma dai politici di Catanzaro e Cosenza: Riccardo Misasi (ministro DC), Ernesto Pucci (sottosegretario) e Giacomo Mancini (allora segretario PSI).

Non è stata, come qualcuno superficialmente insiste a dire, una guerra per un pennacchio, ma sono esplose le umiliazioni di anni, il senso dell’abbandono, la sensazione del tradimento e della cattiveria, come se ci fosse una punizione divina da eseguire in termini politici. Certo, la classe politica reggina era di poco spessore rispetto ai “giganti” che potevano vantare Cosenza (Mancini e Misasi) e Catanzaro (Pucci), e questo ha contribuito a rendere inutili e superflue le lamentazioni e le difese delle ragioni del popolo reggino.

La conflittualità latente tra Reggio e Catanzaro scoprì il suo nervo debole: addirittura, nell’attuale capoluogo, ci fu chi tentò di aizzare e organizzare le masse contro le “pretese” dei reggini.

Ecco, questo triste anniversario può essere l’occasione per una reale analisi, con l’augurio e la debole speranza che possa servire come esempio negativo di come non si governa con l’indifferenza. Il ricordo di quei giorni è praticamente vivo in chi ha superato i 60 anni. I giovani non sanno nulla, ma hanno diritto di conoscere, sapere e capire il perché.

I ragazzi che tiravano sassi e molotov oggi hanno quasi settant’anni e non li ha mai abbandonati l’idea che non avevano ragione, ma la loro rabbia, ricordiamocelo, era figlia di un torto mai riparato, scrive Santo Strati, che all’epoca stava concludendo gli esami di maturità al liceo classico Campanella di RC.

Mentre, in un estratto dell’introduzione della nuova edizione del libro “Buio a Reggio”, lo Strati ci dice:
“A cinquant’anni di distanza sono ancora troppe le cose non chiarite, il sospetto, mai sopito, di una sorta di ‘prova’, un assaggio di guerra civile, in questo caso abilmente pilotata alle spalle di un’incontrollabile sollevazione di popolo. C’è chi sostiene che la rivolta fosse programmata nel quadro della strategia della tensione (ma i primi malumori reggini risalgono a marzo 1969), ma sono troppi gli interrogativi e poche le risposte.”

In strada c’era una folla di uomini, donne e persino bambini, che cercava non un pennacchio di capoluogo da difendere, bensì rimarcava l’eterna delusione della politica, che seguiva ben altre vie e soluzioni di comodo per l’una e l’altra parte, senza tenere in alcun conto l’indignazione – quella sì autentica – della gente di Reggio.

Basta scorrere l’elenco degli arrestati, dei denunciati: ci sono ragazzi, professionisti, studenti di liceo, gente per bene; non ci sono “eversori” o militanti.

Gli storici avranno un bel da fare per fornirci, prima o poi, una onesta e seria valutazione di quanto è avvenuto nei sedici mesi di follia di Reggio. Io ho i miei seri dubbi.

Il guaio è che non è cambiato nulla, anzi lo spirito gattopardesco ha trionfato in questo quasi mezzo secolo, perché tutto cambiasse senza cambiare niente per una città degnissima e ricca di storia, tradizioni e cultura magnogreca: promesse, promesse e ancora promesse. Con la migliore gioventù costretta a cercare fortuna e lavoro altrove.

Per questo, 54 anni dopo, è semplicemente difficile digerire l’assurdo atteggiamento di certi politici e di certa politica nei confronti di una città.

C’era un disegno eversivo e una manipolazione che sfruttava l’indignazione dei reggini?
O è stata soltanto l’inezia di certuni a scatenare l’ira irrefrenabile di chi, a un certo punto, si è visto depredato di tutto?
Manipolando persone e fatti con interpretazioni spesso capziose e, soprattutto, tendenziose, per buttare benzina su un fuoco ormai divampato e indomabile.

Forse occorrerà attendere ancora a lungo per sapere, per capire perché vennero mandati i carri armati a Reggio (senza un mare di vittime grazie a persone come il questore Emilio Santillo, l’arcivescovo mons. Giovanni Ferro e mons. Salvatore Nunnari).

Ci furono i servizi deviati anche nella “rivolta” di Reggio? I dubbi, a distanza di tanti anni, restano purtroppo ancora intatti e senza risposte autorevoli che possano fare chiarezza.

Ancora, Il Giornale ha dedicato importante spazio ai Moti di Reggio: il giornalista reggino Felice Manti ha raccontato i fatti di quell’estate 1970 e svelato il “mistero delle due spie”.

Una si chiamava Wanda C., e si uccise, non prima di aver sparato al marito, colpevole – probabilmente – di aver scoperto il vero perché dei suoi viaggi tra Reggio e Roma, grazie alla carta d’identità della donna, smarrita in una pensione dalle parti del Viminale.
«Era un’informatrice, una delle tante di cui Santillo si serviva per comunicare con Roma.»

Ancora avvolto nel mistero il ruolo dell’altra donna, «anche lei pedina di Santillo», trovata morta sotto uno dei balconi del suo palazzo che dà sulla Via Marina. Avrebbe avuto una liaison con un giudice.

Invece, su Il Metropolitano.it del 23 luglio 2021, a firma dell’amico Tonino Nocera, si legge:
“Reggio ’70: la talpa”. Il giornalista A. La Tella (redattore de Il Tempo e direttore del giornale I Giorni), nel suo libro Taccuino segreto, dedica alcune pagine ai fatti del 1970… Un fatto è certo: senza Franco la protesta sarebbe rimasta schiacciata su sé stessa. Il gruppo che stava attorno al leader ha avuto il merito di non lasciarsi disperdere: non ha tradito, non si è venduto. Con la solitaria eccezione di un tizio che stava di giorno nella sede del Comitato d’Azione e la notte nei sottoscala della Questura” (pag. 99 del libro).

Ed io aggiungo: trattasi di un ex politico naz., così come un altro giornalista e direttore del giornale Lo S….. di RC comunicava alla sezione del Sisde di RC, presso i locali dell’ACI, gli avvenimenti e le persone, mentre un bravo fotografo portava i filmati delle giornate della rivolta prima in Questura per le identificazioni, e poi a casa sua. Mah…

L’articolo continua inoltre nel mio libro di prossima pubblicazione: Generazione Manipolata.

Mentre, volendo ritornare a ritroso nella storia di RC…

L’attenta politica amministrativa dei Re di Napoli, che elargirono a Reggio Calabria, nel 1326 e nel 1352, ampie libertà comunali, seppe presto guadagnare i reggini alla causa angioina, talché essi aiutarono Giovanna I e Ludovico, principe di Taranto, alla conquista di Messina nel 1356.

Divisa in opposte fazioni durante le lotte tra angioini e durazzeschi che sconvolsero il Reame dopo la morte di Giovanna (1382), Reggio vide la preponderanza dei secondi, finché Nicola Ruffo, conte di CZ, la conquistò in nome di Luigi d’Angiò (1404).
La dominazione dei Ruffo avrà termine nel 1443, dopo un lungo assedio, sottomettendola ad Alfonso il Magnanimo. Questi, per vendetta della sua accanita difesa, la infeudò ai Cardona e le tolse il rango di capoluogo della Calabria, a vantaggio di CZ.
Ma già nel 1465 Ferdinando I le restituiva i tradizionali privilegi cittadini e di capoluogo regionale…

Cinque secoli fa, dunque, già esisteva il dilemma: Reggio o Catanzaro.

Dalla catastrofe del Diluvio Universale ad Aschenez, pronipote di Noè, che la fondò; dalla storia affascinante della Fata Morgana, sorella di re Artù; dalle vicende preistoriche che attribuiscono a Reggio un altro fondatore (Alcidamida, nel 743 a.C.), al Medioevo ricco di battaglie e guerre interminabili, scorribande, distruzioni e intrighi che formarono il carattere e diedero forza a una città che ebbe grande prestigio — Reggio Calabria si affaccia alla storia più recente con il suo contributo di eroismo nel Risorgimento italiano.

Nel 1817, i Carbonari reggini, insieme ai pugliesi, ai lucani e ai salernitani, parteciparono alle prime riunioni per organizzare un moto generale, sfruttando la partenza delle truppe austriache dal Regno. I reggini, tra i calabresi, furono i più solleciti e si illusero di poter contare sui patrioti di tutta la regione (la storia si ripete, hihihi).

Al centro dei moti del 1820 e del 1847, completamente isolati da catanzaresi e cosentini, contribuirono alla liberazione della città con i garibaldini, versando il primo contributo di sangue alla causa della rivoluzione italiana.

Caddero Domenico Romeo, Gaetano Ruffo, Domenico Morabito e Rocco Verduci: nomi ignorati dai testi risorgimentali, ma illustrati metodicamente, nella “battaglia psicologica” di Reggio, alle giovani “reclute” che parteciparono alle tristi giornate dell’autunno 1970 e delle prime settimane del ’71.

Il 18 ottobre 1970 capitò a Reggio Calabria Adriano Sofri: uno dei fondatori del movimento comunista di estrazione cinese o, se volete, un capo della sinistra extraparlamentare (Potere Operaio), esponente del periodico Lotta Continua.

A Reggio, Sofri trascorse una notte soltanto e la passò all’albergo “Excelsior”, impiegando una decina di ore a chiacchierare con gli “inviati”, che non esitò a definire “asserviti al padrone”, perché disse…

Quella notte sputò sentenze su tutto e su tutti.

Poi, messo alle corde, fu costretto a parlare dei problemi calabresi…
Ed egli, allora, sintetizzò in poche parole e in questi termini:

1°. Disobbedienza civile
2°. Astensione dalla vita pubblica
3°. Rifiuto sistematico alla chiamata di leva

Per la soluzione reggina, unica possibilità: la rivolta armata.

Ma quando alcuni “inviati” chiesero spiegazioni sulla presenza e sulle dichiarazioni di A. Sofri, il questore Emilio Santillo sembrò cadere dalle nuvole. Nessun magistrato, inoltre, rilevò in quelle parole — in quegli incitamenti alla rivolta e alla lotta armata contro i poteri dello Stato — gli estremi per una denuncia. Ed egli partì indisturbato.

Verso la fine dell’anno, per altri reati, fu arrestato a Torino.
Ma nessun giudice chiese conto a Sofri delle dichiarazioni pronunciate di fronte a decine di attendibili testimoni, al bar dell’“Excelsior” di RC. (Mah…)

Al contrario di quanto accadde nella notte del 17 dicembre 1970, quando — grazie all’intervento dell’arcivescovo di Reggio, Giovanni Ferro, e a un passaparola — il questore Santillo ritirò gli agenti dalle strade, onde evitare l’inizio di una vera guerra civile. Però i poliziotti erano già sui tetti e sulle terrazze delle vie adiacenti al palazzo della Questura, da dove spararono.
Ma loro li avevano visti, e si misero al riparo dietro un albero. (hihi)

Di tutto ciò, è prova vivente, ancora oggi, l’amico Nando Sor.

A differenza di altri, che su Facebook si atteggiano a rivoluzionari, mentre in quei giorni stavano sulla terrazza di casa con il binocolo… o dietro i palazzi, ecc., a guardare da lontano l’accadere dei fatti.

Cari amici, 54 anni dopo, ancora parte della cittadinanza esprime il reale stato d’animo e la volontà di Reggio Calabria di vedere proclamata la verità.
E fino a quando ciò non sarà chiarito e documentato dai fatti — fatti che da troppo tempo ormai si fanno attendere — non si illudano i responsabili che l’attesa sia finita.

Dovranno agire in fretta per rimuovere le vere cause della tensione e delle ingiustizie che la città di Reggio Calabria ha subito.
Sapendo che le manifestazioni di violenza sono i frutti inevitabili di tutte le rivolte, perché i veri responsabili della rivolta sono stati proprio coloro che a tali cause hanno dato origine, e che ancora oggi, invece di rimuoverle, costituiscono comitati ad personam.

Certo, l’assuefazione ai proclami, la disinformazione, la connivenza di parte della stampa con le forze dell’ordine, il sistema giustizialista, i “teoremi” giudiziari, l’appalto della “verità” giudiziaria ai pentiti, la politica “azzerata” — tutto ciò ha contribuito a non far reagire ulteriormente contro lo sconfinamento del potere centrale e regionale.
E non da ultimo, contro il potere giudiziario.

Venivano eseguite perquisizioni domiciliari con mandati a dir poco “ambigui”, dove si poteva leggere nei provvedimenti:

“Ritenuto che si rende opportuno, utile ed urgente procedere alla perquisizione domiciliare ai fini di acquisire eventuali elementi utili alla giustizia…”

Nemmeno durante la presa della Bastiglia in Francia, il 14 luglio 1789…

Così com’è sicuro che vi siano particolari che sarebbero esilaranti da raccontare, come quei piccoli “rivoluzionari” (o pentiti, o funzionari) che si preparavano già dal mattino per poter adempiere meglio al loro nobile gesto da eroi di giornata.

E con questo “armamentario” è stata fatta calare sulla città — su tanti cittadini e cittadine — una coltre di fango e di sospetto.

Allora, chi vuole evolversi… chi non ha motivo di temere la verità e desidera pervenire a un nuovo assetto per la società e per il Paese, non si aspetti che tutto ciò bussi alla porta di casa per comprenderlo: SI ALZI E COMINCI A CAMMINARE.

Perché restano ancora molte zone d’ombra, che non riguardano solo la scintilla della Rivolta, ma soprattutto le ombre che hanno avvolto gli eventi centrali e quelli successivi.

  • Il 5 luglio 1970, durante il “Rapporto alla città” in Piazza Duomo, Piero Battaglia, giovane sindaco di Reggio Calabria, esortò i presenti “a tenersi pronti a sostenere con forza il diritto di Reggio Calabria alla guida della Regione”. Il giorno dopo, si dimise il Presidente del Consiglio Mariano Rumor.
  • Il 10 luglio si tenne un’assemblea popolare a Palazzo San Giorgio, in cui fu proclamato lo sciopero generale, mentre il 13 luglio a Catanzaro si insediò il nuovo Consiglio Regionale.
  • Il 14 luglio 1970 ebbero inizio i moti, che si svilupparono fino all’anno successivo, con la costituzione di vari comitati. Il più importante fu presieduto da un altro giovane, Ciccio Franco, con lo slogan “Boia chi molla per Reggio Capoluogo”: questo divenne il vessillo della rivolta.
    Il 18 febbraio 1971, alle 5 del mattino, l’esercito entrò in città con cingolati, ruspe e blindati dello Stato, espugnando il “Granducato” di Santa Caterina. La notte del 23 febbraio cadde anche la “Repubblica di Sbarre”, l’ultima roccaforte della protesta.
  • Il 7 settembre, Piero Battaglia, criticando l’operato del Governo, si dimise da sindaco.

L’articolo CONTINUA inoltre nel mio libro di prossima pubblicazione, “Generazione Manipolata”,
perché la memoria è conoscenza, e dunque la domanda è:
Ci serve ancora la memoria? Sì.
Ricordare è una componente essenziale del sapere umano.

Per questo, a distanza di 54 anni, non servono celebrazioni, ma solo serie riflessioni, in cui emerga che quella di Reggio Calabria fu una rivolta di un popolo quasi intero, durante la quale si contarono centinaia di feriti e di arresti, senza saccheggi né distruzioni.

Va sfatato il mito di una direzione strategica da parte di partiti o organizzazioni extraparlamentari.
L’unica vera pietra della rinascita del popolo, unico simbolo autentico della protesta, fu Ciccio Franco, affiancato dal vero stratega, il fratello Lello, padre di Antonio e Annamaria.

Non va dimenticata l’azione propositiva e di conforto di monsignor Salvatore Nunnari, che si identificò pienamente con la sua gente, vivendo una profonda comunione con essa.
Così come vanno ricordati gli imponenti cortei delle donne reggine, vere passionarie che, lasciate le case e i figli, sfilavano come tante Evita Perón. In prima fila, l’indimenticabile Rosetta Zoccali, madre dell’amico fraterno Giovanni Romeo.

E come non ricordare la professoressa Mafalda M. R. Romanò in Polimeno, vicepresidente del Comitato d’Azione per Reggio capoluogo – sezione femminile – e madre dell’amico Francesco Polimeno.

Le vicende di Reggio Calabria furono oggetto di attenzione da parte di 18 testate nazionali e 14 straniere. Tra queste ultime, con distaccato equilibrio:

  • “Die Welt”: “Più preoccupante della rivolta stessa è il modo in cui lo Stato ha finora reagito, attraverso un massiccio impiego di forze di polizia…”
  • “Hamburger Abendblatt”: “Le unità armate, appoggiate da panzer, hanno occupato Reggio Calabria e la città si trova in stato d’assedio…”
  • “Socialidemokraatti”: “Si è steso il velo di un inquieto silenzio sui problemi irrisolti di Reggio… Le vere radici del problema sono più profonde. È importante avere amici a corte, in un sistema politico come quello italiano, in cui molte cose si muovono sulla base di rapporti personali, favori e raccomandazioni.
    L’ondata di protesta ha scavalcato i partiti politici, dimostrando quanto siano carenti nel rappresentare la volontà del popolo nell’Italia di oggi. Se gli abitanti del Sud non recupereranno la fiducia, la violenza potrà esplodere nuovamente.”
  • “The Times”: “Reggio porta la protesta a Roma… La città è calma, ma in stato di apprensione. Si ha la netta sensazione che abbia subito terribili e ingiustificate offese e non voglia più sopportarle…”

Il 15 febbraio 1971, l’Assemblea calabrese approvò l’ordine del giorno che recitava:

“Il Consiglio Regionale della Calabria, udita la relazione del Presidente della Giunta Guarasci in merito ai problemi dell’assetto istituzionale della Regione;
preso atto delle localizzazioni industriali;
nella pienezza della sua autonomia riconosciutagli dalla Costituzione,
delibera di formulare l’art. 2 dello Statuto regionale nei seguenti termini:
Il capoluogo è Catanzaro, dove hanno sede la Giunta e la Presidenza della Regione. Il Consiglio ha sede nella città di Reggio Calabria.

Questo è il “Rapporto alla città”, ovvero l’arte di vivere il vero Sé dei fatti, libero da illusioni.

Uno dei motivi di questo post è la narrazione della Rivolta di Reggio Calabria, in cui era possibile osservare e leggere l’intero spettro delle emozioni e delle azioni umane di quegli avvenimenti.
Riscontro, tuttavia, che sui social non esiste la parola “silenzio”, perché, in rete, il ricordo privato esiste soltanto se diventa collettivo, se si può esibire, e non per dialogare sul tema posto. Inoltre, non serve a rivelare la vanità di chi, impersonando una figura di autorità con uno scettro in mano, dimentica che gli abiti regali non fanno l’uomo.
Tutto concorre a un anfiteatro emozionale in cui bisognava dire, esprimere, esserci e condividere, mentre dialogare sulle vere motivazioni, che ormai il tempo ha coperto, serviva a far “nascere” la verità agli eventuali interlocutori e a dare spazio alle nuove generazioni, liberando prima gli armadi della memoria.
Per fare ciò, era di fondamentale importanza l’ascolto, sia nelle relazioni interpersonali che in quelle con se stessi, affinché il passato lasciasse spazio al nuovo, e il nuovo trovasse le condizioni per entrare nel futuro delle nuove generazioni.
Però, per essere dentro la vita e in armonia con ciò che ci circonda, visto che con o senza di noi la vita fa comunque il suo percorso, occorre reintegrarsi e accettarla, qualunque cosa essa abbia in serbo per noi.
Essa è molto più saggia di noi e, una volta entrati nel suo flusso, sarà la libertà di essere se stessi e liberi da condizionamenti.
Ma, affinché tutto ciò si verifichi, il percorso di crescita personale deve essere senza ostentazione, con umiltà, e deve basarsi su una grande autostima. Non occorre dimostrare niente a nessuno, solo crescere per se stessi, per poi migliorare la società.
Ho detto.
L’articolo continua inoltre nel mio libro “Generazione Manipolata”, di prossima pubblicazione per le edizioni Laruffa.

I° COMMENTO
Certo, in uno Stato governato da fazioni che dettano l’agenda anche alla politica sottomessa e passiva, appare quanto mai incomprensibile sobbalzare alle ingiustizie, a meno che la politica non decida di riappropriarsi del ruolo e delle funzioni costituzionalmente previste, e se vi saranno uomini pronti a difendere la verità. Solo allora si potrà sperare di ottenere giustizia.
Però, sappiamo per esperienza che la verità non esiste, e che la cosa che conta di più è ferire l’avversario, perché l’oppressore non concede mai la libertà per decisione spontanea: sono gli oppressi che devono esigerla.
Come ha detto l’amico Carlo Porcino, manca serenità di giudizio e mancano ancora molti tasselli per la “vera storia”…
Certo, c’è chi ha tratto vantaggi dalla situazione e non ha alcun interesse a far conoscere la vera storia.
Una storia vissuta per le strade, non nei palazzi che contano, che non mi ha portato alcun vantaggio.

II° COMMENTO
Io, per mia natura, ho scarsa fiducia nella bontà della natura umana, sono consapevole del suo lato oscuro, ma sono anche consapevole dello sforzo continuo che l’umanità ha compiuto per sviluppare ciò che ci salva dai nostri meccanismi distruttivi e autodistruttivi. Lo sforzo che ha permesso alla nostra società di diventare una democrazia, della fatica e dell’impegno collettivo che ci hanno donato i concetti e i principi su cui si fonda ogni società democratica: uguaglianza, libertà, inclusione, giustizia, solidarietà.
Abbiamo scavalcato gli steccati con l’esercizio del dubbio, perché per la maggior parte del tempo si accumulano regole, limitazioni, leggi, direzioni, abitudini. Arrivati al termine del percorso, si inizia a meditare molto su ciò che si è accumulato, visto che, dopo 54 anni dalla rivolta, ancora siamo sul “pendio”.

III° COMMENTO
Certo, si può guardare al passato con occhi diversi, in maniera costruttiva, per recuperare ciò che è possibile e utile rigenerare. Ma visto che al potere c’è sempre l’avidità, non l’ideologia, l’Ente è più interessato ad arricchire i suoi burocrati e politici piuttosto che a esercitare un controllo ideologico.
Quindi, non è più questione di ascoltare, ma, anzi, di giudicare, sentenziare, decidere, più correttamente.
Il politico deve fare, come diceva Plutarco, l’interprete tra il desiderio della popolazione e le esigenze di una comunità.
E siccome, dopo tanto viaggiare, il mio compito è solo quello di osservare la realtà e descriverla nel miglior modo possibile, ve la presento a nome di Ben. Sembianza.