Sono passati 50 anni da quando la “Strategia della tensione” ebbe inizio.
A tutti coloro che si sono ricordati di non dimenticare.
Perciò, oggi ci siamo messi sulle tracce del passato, trovandoci nel ruolo di “osservatori,” “guide” e partecipanti. Abbiamo provato a immaginare quali potessero essere, tra gli argomenti di storia contemporanea su cui abbiamo esperienza, quelli che da un lato avessero un radicamento nei luoghi frequentati di Roma (RM), Pisa (PI), Livorno (LI), Milano (MI) e Reggio Calabria (RC), e dall’altro potessero suscitare interesse e conoscenza nelle nuove generazioni e in chi visse quel periodo. Abbiamo riflettuto su come sia andata e su cosa ci siamo portati a casa da quella esperienza.
Infine, abbiamo adottato uno sguardo differente sulle città e sull’itinerario, più articolato, lungo luoghi significativi in cui ci siamo mossi e sul loro passato. Dopo una selezione iniziale degli avvenimenti, siamo giunti all’individuazione dell’argomento definitivo: la “Strategia della tensione.” Spesso oggetto di mistificazioni e manipolazioni, essa ha condizionato ampiamente la conoscenza storica, lasciando una scia di fosca confusione sintetizzabile con la retorica dei “misteri d’Italia.”
Questo è un patto tra generazioni che vogliono conoscere e un richiamo all’urgenza della memoria. Altrimenti, piano piano, con l’aumentare della distanza storica da quegli eventi, i cosiddetti “Anni di Piombo” o la “Strategia della tensione” rischiano di perdersi nella memoria collettiva. Forse non si coglieranno più i punti oscuri di quegli eventi tragici o le ragioni di una rimozione.
Perché “tutto ciò che appariva contestazione, rottura delle regole, eversione iconoclasta venne divulgato dai cataloghi delle migliori case editrici, approvato da stuoli di intellettuali influenti. Un’omertà che ha visto protagonisti specialmente ambienti significativi della borghesia democratica laica e cattolica di alcune città simbolo del nostro Paese, la quale, direttamente o per il tramite dei propri figli, si trovò in varia misura a costeggiare fatti o protagonisti dell’eversione rossa, condividendone talvolta il retroterra ideologico.
È a causa dell’atteggiamento di questi settori della classe dirigente che ha preso piede un meccanismo di rimozione di questo passato. E insieme è stata rimossa tutta una serie di comportamenti conseguenti: vale a dire i molti casi di una condotta compiacente o benevolmente accomodante, quando non concretamente collusa.”
Gilles Deleuze diceva che la parte interessante di qualunque processo non è il suo inizio, che è sempre discreto e “mimetizzato” nello stato di cose presenti, ma la metà del suo percorso, quando gli elementi innovativi si staccano dallo sfondo col quale si confondevano e diventano palesi.
Gli anni di piombo rappresentano un periodo storico che interessa l’Italia dagli anni ’70 ai primi anni ’80, caratterizzato da diffuse violenze di piazza e dal fenomeno della lotta armata. Dalla violenza più verbale e simbolica che materiale e organizzata del Sessantotto, ma portatrice di un processo di radicalizzazione politica, la contestazione giovanile sfociò in una contrapposizione al sistema assai più violenta.
Il linguaggio politico delle manifestazioni degli anni di piombo riecheggia ancora oggi nel linguaggio dei radicalismi politici, che si esprimono attraverso il graffitismo e le affissioni murali.
Non vi è dubbio che quegli anni rappresentino, a tutt’oggi, un trauma che richiederebbe maggiore attenzione per documentarne e analizzarne l’essenza, nel contesto del più vasto clima di violenza diffusa, praticata ed enunciata. Ecco perché diventa cruciale comprendere come si giunse “verso la lotta armata” e come si instaurò e propagò un tale clima.
Un’epoca davvero tragica e contraddittoria della storia italiana, della quale molto resta ancora da scoprire e da assimilare. Un’epoca che suscita, nell’immaginario collettivo, sentimenti contraddittori di sgomento e desiderio di rimozione.
L’analisi di quegli anni può aiutare a interpretare meglio quanto accaduto, perché restano troppi punti oscuri nel racconto degli “anni di piombo.” La verità storica su quel periodo è estremamente complessa: molti dei misfatti allora perpetrati non sono stati chiariti, e anche la verità giudiziaria, quella sancita dai tribunali, appare incompleta e parziale. È dunque necessario cercare di capire quanto accaduto con il distacco sufficiente per raggiungere conclusioni più soddisfacenti.
Perciò, quale personaggio del passato o del presente potrebbe aiutarci a ripartire?
Quando qualcosa funziona poco, si cerca subito di agire. Se si tratta di economia o di politica, si immagina un’idea, un tecnico, una personalità o un leader capaci di offrire la soluzione. Quante volte si sente dire: “Ci vorrebbe questo…” per migliorare la situazione. La crisi si è fatta più lunga del previsto, e l’impazienza cresce. E così si ripete: occorrerebbe qualcuno in grado di fare qualcosa di più. Subito dopo, si inizia a parlare di una classe politica inadeguata.
Le esitazioni degli storici ad occuparsi di una materia che può apparire sin troppo incandescente sono comprensibili, e il rischio di basare la propria ricostruzione su ipotesi non verificate è reale. Non stupisce che, negli anni Novanta, l’uscita dei saggi di Franco De Felice e Nicola Tranfaglia sulla tematica del “doppio stato” sia stata accompagnata da vivaci polemiche.
Nel frattempo, Dondi si prefigge di colmare questa lacuna, offrendo una visione d’insieme dal 1969 al 1974. Indica così una precisa politica, messa in atto da determinati settori delle istituzioni, per strumentalizzare gli episodi di violenza e condizionare il quadro politico e sociale. Tutto ciò avvenne in un contesto che, in seguito alle lotte studentesche del 1967-68 e all’“autunno caldo” del 1969, appariva in rapida evoluzione. La stampa di orientamento reazionario, moderato o comunque filogovernativo, e le stesse agenzie di informazione, si rivelarono fondamentali per la copertura mediatica degli eventi e per orientare l’opinione pubblica.
L’autore, tuttavia, sceglie il 1965 come termine a quo della strategia della tensione: nel maggio di quell’anno, infatti, si svolge a Roma un convegno dell’Istituto Pollio, a cui partecipano, oltre a esponenti delle forze armate, dei servizi segreti e del mondo politico, anche molti giornalisti, tra cui i direttori dei quotidiani «Il Messaggero», «Il Tempo» e «La Nazione», e di settimanali come «Lo Specchio» e «Il Borghese». Dal convegno nascono i Nuclei di difesa dello Stato, strumento per la guerra non ortodossa.
Proprio in reazione a questo battage giornalistico opera la cosiddetta controinformazione che, decostruendo la versione ufficiale, dà un contributo fondamentale nello smascherare e quindi anche nel disinnescare la strategia della tensione. Le trame eversive continueranno, ma dovranno sfruttare altri metodi. È il caso della P2 e del suo Piano di rinascita democratica, che segna, come già notava Francesco Biscione, il superamento della strategia della tensione, almeno rispetto a come veniva precedentemente intesa.
Ancora oggi è impossibile dare un giudizio documentato e definitivo sulle origini e sulle responsabilità dell’ondata di violenza che colpì il Paese, ma, sulla base delle ultime risultanze, sembra giustificato collocare gran parte degli episodi di quegli anni nel quadro della risposta delle forze conservatrici all’ascesa economica e politica delle classi lavoratrici e della reazione dei vari gruppi terroristici, diretta a colpire le istituzioni democratiche e a creare le condizioni per un cambiamento di regime.
Giudizio, come si vede, molto cauto, ma che indica, pur dubitativamente, una chiave di lettura «interna» basata sugli effetti dello scontro sociale in atto. Paul Ginsborg è ancora più esplicito in questa direzione.
Il nesso fra la strage milanese e l’intenso conflitto sociale del biennio 1968/69 è sottolineato anche da S. Colarizzi in Biografia della prima Repubblica, ed. Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 102 e segg:
«Collaborazione tra la CIA e i nostri Servizi, con la complicità, a volte il protagonismo individuale, di alcuni dei maggiori responsabili del comando delle Forze Armate italiane» (p. 458).
«… Negli anni seguenti la Grecia, dopo il colpo di stato militare (aprile 1967), alla cui regia aveva direttamente presieduto la CIA, fu meta di continui scambi di addestrandi ed addestrati. Il “substrato ideologico” alimentato dagli alti comandi delle Forze Armate era di segno inequivocabilmente neofascista. Con queste iniziative si veniva creando una rete eversiva attraverso cui, dopo il ’68, passeranno gran parte degli episodi che vennero a costituire la catena della “strategia della tensione,” che aveva i suoi terminali nelle organizzazioni neofasciste di Avanguardia Nazionale, di Ordine Nuovo e del Fronte Nazionale… a partire dalle quali si diramava una galassia di sigle riconducibili alla stessa matrice» (p. 460).
Largamente collimante e, anzi, più duro nei confronti della NATO è il giudizio di Massimo Teodori:
«Quelle manovre eversive e destabilizzanti non possono essere circoscritte a una dimensione nazionale e politica, risultando abbondanti le tracce del collegamento internazionale con gli ambienti NATO. Alcuni dei principali imputati nei processi per eversione di quel periodo, il generale Francesco Nardella… e il colonnello Angelo Dominioni, avevano già avuto la responsabilità dell’Ufficio Guerra Psicologica presso il comando Ftase della NATO: un ufficio dalle attività misteriose che sembra avere avuto tra i suoi compiti, in collegamento con la CIA, quello di studiare le varie attività psicologiche da usare in caso di colpi di Stato, guerre civili, sommosse, controguerriglia e anche di approfondire l’uso “scientifico” della “strategia della tensione”».
Questo giudizio, peraltro, appare largamente condiviso (saggio di Sabattuci) da un altro autorevolissimo storico di area liberal-democratica come Ernesto Galli della Loggia che, sul Corriere della Sera del 18 agosto 2000, ha sostenuto l’insussistenza di una strategia della tensione, ma la compresenza di molteplici azioni destabilizzatrici contro il nostro Paese (sovranità limitata).
Oggi immaginiamo che questo percorso possa ancora essere compiuto, ma siamo consci che è la memoria stessa a rischiare di scomparire. Serve un primo passo, una riapertura simbolica del discorso, che serva a impedire, o almeno ritardare, la cancellazione della memoria e quindi della storia che ad essa si riferisce. Di qui, la progettazione di un memoriale degli anni di piombo.
Un passaggio irto di difficoltà, delicato perché doloroso, ma su cui si può costruire un consenso allargato, riferito a un altro tempo, quello del presente, in cui il compito di ricostruirne la storia e l’interpretazione diviene parte di una battaglia politica e culturale ancora da concludere, se non da svolgere tout court.
Tutti questi eventi sono stati il terreno di clamorosi depistaggi, con l’implicazione di “esponenti deviati” di vari apparati dello Stato.
Il tempo è anche servito a cancellare gli archivi degli organi dello Stato, sul contenuto dei quali, però, è sempre stato… Pertanto, uno degli aspetti più negativi della cultura di oggi è la memoria brevissima. Quegli eventi appartengono a un mondo che, pur non essendo il vostro passato, è comunque parte – in qualche modo – del mio presente, della mia visione del mondo. Non è semplicemente una nozione storica; fa parte della vita, che è sempre più lunga della nostra età anagrafica.
Come una pianta che cresce e che ha le sue radici nella terra: anche se non si vedono, sono una sua parte essenziale.
Infatti, ricordo una frase di Edouard Glissant sull’identità: le radici non devono sprofondare verso il buio atavico delle origini, ma stendersi orizzontalmente come rami di un albero, finché incontrano i rami di un altro albero; si toccano come due mani che si stringono, pur rimanendo ciascuna appartenente all’una e all’altra persona.
Le generazioni attuali spesso hanno una conoscenza parziale o distorta degli anni Settanta, e forse chi c’era sente la necessità di elaborare una memoria storica condivisa di quel periodo, che costituirebbe uno strumento indispensabile per le nuove generazioni per interpretare il presente.
La memoria di quegli anni, infatti, sta “evaporando”, come direbbe Paolo Morando. Sarebbe una memoria «sempre più vaga e sfuocata». La stessa ricerca rileva che la responsabilità di ciò ricade innanzitutto sul calo della presenza di questi temi nei media classici, come televisione e giornali, mentre si mantiene nelle fonti private.
Gli “anni di piombo” non si possono comprendere fino in fondo se non si tiene conto della profonda trasformazione avvenuta in Italia nel secondo dopoguerra.
I cambiamenti sociali derivati dal boom economico e gli squilibri economici e sociali, che minacciavano lo sviluppo italiano, attendevano una risposta sul piano politico. Tale risposta doveva consistere in una serie di riforme di grande portata che avevano bisogno di un largo consenso per la loro messa in atto.
La possibilità di intraprendere le riforme era soggetta all’apertura a sinistra dei governi democristiani. Questa apertura fu lenta ed ostacolata da entrambe le parti. Aldo Moro, allora segretario della DC, proponendo un’unione con il PSI in modo forse ambiguo ma tale da tranquillizzare tutti e superare le obiezioni di oppositori e fautori del centro-sinistra, riuscì a ottenere l’appoggio della maggioranza del suo partito.
I governi di centro-sinistra non riuscirono quindi a dare risposte credibili alle molteplici esigenze di un’Italia in rapido cambiamento. L’insieme di questi fattori generò forti tensioni all’interno delle imprese, tra la classe operaia e la classe dirigente. Gli anni che vanno dal 1968 al 1973 furono caratterizzati da rivendicazioni, scioperi e lotte sindacali per ottenere salari più giusti, ritmi di lavoro meno pesanti ed evitare licenziamenti massivi di lavoratori.
Nell’anno accademico 1967-1968 iniziò un vero ciclo di contestazioni, dapprima a Trento, poi all’Università Cattolica di Milano e a Torino, e successivamente in tutta Italia.
Il movimento studentesco era inizialmente relativamente pacifico. Con l’occupazione dell’università di Roma (marzo 1968), tutto cambiò. Quando gli studenti occuparono Valle Giulia, la polizia reagì con forza e da quel momento la violenza iniziò a far parte della protesta giovanile.
La risposta dei partiti politici all’inasprimento della lotta studentesca fu certamente debole. Tra i partiti di governo, la DC si limitò ad attendere che il fenomeno si esaurisse spontaneamente, mentre il PSI cercò di intervenire, ad esempio, con una proposta di amnistia per i reati commessi in occasione delle lotte studentesche. I partiti dell’opposizione, invece, appoggiarono il movimento accettando e giustificando la violenza politica, considerata come un male necessario.
Le organizzazioni sindacali erano sempre più lontane dalla massa degli operai e quindi sempre meno idonee a rappresentare le loro proteste.
Le mobilitazioni studentesche e operaie del ’68-’69 propiziarono la nascita di molti gruppi politici che si collocavano a sinistra del PCI. Questi gruppi presero il nome di Nuova Sinistra, un’entità ideologica vicina al pensiero marxista-leninista. Tra questi ricordiamo: il Movimento Studentesco Milanese, Servire il Popolo, Avanguardia Operaia (AO), il Manifesto, Potere Operaio (PO) e Lotta Continua (LC). Queste nuove realtà politiche contestavano il PCI, accusandolo di eccessivo centralismo e di avere perduto la sua matrice più autenticamente rivoluzionaria.
Molti operai furono attratti dalle loro idee e dai loro miti; grazie anche all’attivismo dei gruppi della Nuova Sinistra, si formarono i cosiddetti “comitati di base”.
Con il decreto del Presidente della Repubblica n. 283 del 22 maggio 1970, fu varata un’amnistia per i reati commessi anche con finalità politiche.
La lotta operaia vide il suo apice nello sciopero presso lo stabilimento Fiat Mirafiori di Torino, nell’estate del 1969.
Le riforme che videro la luce nel 1970 furono:
- l’istituzione delle regioni,
- l’introduzione del referendum abrogativo,
- e la riforma delle pensioni, che riconosceva a chi andava in pensione dopo 40 anni di lavoro il diritto a percepire il 74% del salario medio ricevuto negli ultimi 5 anni.