Ben presto, però, cominciò a farsi strada un’ipotesi più inquietante: che ci si trovasse di fronte a un tentativo di condizionamento dell’intera società italiana da parte della classe dirigente, attraverso un premeditato piano di strumentalizzazione della violenza. Si trattava della cosiddetta “strategia della tensione”.
L’espressione apparve per la prima volta sul settimanale britannico The Observer, a firma di Leslie Finer. Secondo questa ipotesi, «gli apparati dello Stato […] si sono mossi con disegni divergenti […ma con la comune] volontà di condizionare lo scenario politico e […] di modificarlo radicalmente».
La “strategia della tensione” sarebbe stata una diretta conseguenza dell’egemonia statunitense anche nel nostro Paese, accettata dalla classe dominante in quanto «funzionale alla sua permanenza al governo». Si sarebbe configurata sul modello della guerra fredda, attraverso due strumenti d’azione: la guerra psicologica e la guerra non ortodossa.
Importantissimo, ai fini della guerra psicologica, è il ruolo della stampa. Pianificare il flusso informativo è essenziale per influenzare la reazione dell’opinione pubblica. In questo clima di tensione, nacquero o si consolidarono gruppi terroristici organizzati di matrice marxista-leninista, impegnati in una lotta senza quartiere contro lo Stato, come Prima Linea (PL) o i NAP (Nuclei Armati Proletari), e soprattutto le Brigate Rosse (BR), che si resero colpevoli di minacce, gambizzazioni e omicidi ai danni di sindacalisti, politici, giudici, dirigenti d’azienda e giornalisti. Questi ultimi furono colpiti perché rappresentavano il nemico da abbattere e, dispregiativamente, venivano chiamati “servi dello Stato”.
Inoltre, le BR si strutturarono in colonne, ovvero unità territoriali, e successivamente in fronti, organismi suddivisi in base alle loro funzioni. Le bande terroristiche crebbero e si rafforzarono tra la fine del 1975 e il 1976.
Parallelamente ai servizi segreti ufficialmente riconosciuti, esistevano organizzazioni parallele, coperte dal segreto politico-militare e integrate nella NATO. La prima, in ordine cronologico, fu Gladio, costituita nel 1956, che aveva come principale obiettivo quello di prevenire e combattere un’eventuale occupazione nemica.
Di grande importanza fu l’emanazione della legge 29 maggio 1982, n. 304, dal titolo «Misure per la difesa dell’ordinamento costituzionale», comunemente conosciuta come “legge per i pentiti”.
All’art. 2, intitolato «Attenuante per i reati per finalità di terrorismo e di eversione in caso di dissociazione», erano previste pene meno severe per chi, prima della sentenza di condanna, collaborava con le forze dell’ordine.
Per gli imputati la cui collaborazione fosse risultata di «eccezionale rilevanza», tale da consentire la scoperta di intere strutture terroristiche, era prevista un’ulteriore riduzione di un terzo della pena. La via della legislazione premiale venne perfezionata con la legge 18 febbraio 1987, n. 34, intitolata «Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo».
Tuttavia, a partire dal 1972, con la morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli e l’assassinio del commissario Luigi Calabresi, l’atteggiamento del PCI cambiò. Si avvertì l’esigenza di rompere completamente con l’estremismo attraverso un’azione concreta, poiché non bastava più la semplice dissociazione.
Il primo a rendersi conto del pericolo rappresentato dalle bande terroristiche fu probabilmente il neo-eletto segretario del PCI, Enrico Berlinguer.
Questo atteggiamento produsse frutti in campo elettorale: nelle elezioni amministrative del 1975 e in quelle politiche del 1976, il partito ottenne ottimi risultati che crearono terreno fertile per portare avanti la strategia del “compromesso storico”. I rapporti con la DC si intensificarono, e il PCI divenne determinante per la stabilità degli altrimenti ingovernabili esecutivi democristiani. Viceversa, i risultati elettorali di Autonomia Operaia e degli altri gruppi dell’estrema sinistra furono deludenti.
Quando le azioni violente di Autonomia Operaia si intensificarono e le BR iniziarono a uccidere, la lotta al terrorismo divenne una priorità per il PCI, che cominciò a sostenere l’impiego di misure repressive da parte delle forze dell’ordine. Da ricordare, in tal senso, l’appoggio alla cosiddetta “Legge Reale” sull’ordine pubblico.
Le bande clandestine (BR, NAP e PL) costituivano solo una parte del cosiddetto “partito armato”. L’altro elemento che contribuì a peggiorare il clima di sospetti fu, come si è visto, il comportamento degli inquirenti e del governo, che cercarono di insabbiare le indagini, fornendo versioni false.
I tragici avvenimenti del 1969 possono essere considerati come il punto di partenza di un’ampia riflessione nella stampa italiana sulla ridefinizione del concetto di informazione e sul modo di intendere la professione giornalistica. Si trattava di privilegiare il lavoro d’inchiesta, orientato alla ricerca della verità, che si sospettava fosse diversa da quella offerta dagli organi ufficiali e dalla stampa controllata dai grandi capitali.
Il libro di maggiore impatto di questo periodo fu La strage di Stato, pubblicato il 13 giugno 1970, che portò a galla il fenomeno della “controinformazione” e conteneva alcune informazioni poi confermate dalle successive indagini della magistratura. Non meno rilevante era l’insieme dei gruppi di Autonomia Operaia. La stampa, poi, non ebbe la stessa reazione di fronte al terrorismo rosso, rappresentato dalle BR o dai nuclei rivoluzionari legati all’editore Feltrinelli. Le BR godettero, in generale, di un certo grado di comprensione nella società italiana e anche nel mondo dei mezzi di comunicazione, in particolare nelle testate del gruppo editoriale che faceva capo a La Repubblica e l’Espresso. Tuttavia, mancava un’indagine seria che studiasse il fenomeno. Solo più tardi, anche grazie agli studi promossi dal PCI, giornali come l’Unità e Rinascita iniziarono a sviluppare una critica più approfondita nei confronti dei brigatisti e di Autonomia Operaia.
Il caso Moro divise ulteriormente il mondo della politica e quello della stampa. Ci si trovò di fronte a un duplice problema. In primo luogo, ci si chiese se i cittadini avessero il diritto di essere informati o se si dovessero porre dei limiti. In alcuni casi, infatti, l’informazione si confondeva con la propaganda o il sensazionalismo. L’altro problema fu quello di determinare se si dovesse negoziare con i terroristi per salvare la vita di Moro, oppure no.
Un problema analogo si presentò con il sequestro del magistrato G. D’Urso ad opera delle BR, le quali chiesero, per il suo rilascio, la pubblicazione dei proclami dei loro compagni in prigione. Molte testate si dichiararono contrarie a cedere al ricatto. Alla fine, alcuni quotidiani decisero di pubblicare i proclami. Il magistrato fu liberato dai terroristi dopo la pubblicazione e la chiusura del carcere dell’Asinara.
Per superare il passato e ricucire le ferite, non si deve dimenticare. Per chi è sopravvissuto a un attentato o ha perduto un familiare o un amico, mantenere viva questa memoria consente in qualche modo di ritrovare le persone perdute e di comprendere le ragioni della loro scomparsa. Ma ricordare è importante anche per tutta la nostra società.
Calabresi sottolinea: “In un Paese che non riesce a trovare modelli, esempi, che occasione sprecata non ricordare, avere rimosso. Il rigore e lo scrupolo di Vittorio Occorsio, l’onestà intellettuale e il coraggio di Guido Rossa.”
Ciò non significa che il colpevole non debba essere punito, ma che insieme al castigo «deve essere posto nella condizione di comprendere il disvalore del fatto commesso e deve essere reso partecipe del dolore cagionato alla vittima con la propria condotta illecita».
In Italia, la giustizia riparativa, come accennato in precedenza, trova difficoltà ad attecchire. Nel frattempo, una nuova formazione, Guerriglia Rossa, compiva azioni di sabotaggio ai danni della distribuzione dei grandi quotidiani. Di lì a poco, questi stessi terroristi avrebbero formato la Brigata XXVIII Marzo.
Nel 1980, Walter Tobagi venne ucciso da quegli stessi uomini. Non furono quindi le BR a pianificare quella morte, ma giovani terroristi, quasi tutti di buona famiglia, che, per farsi accettare nelle BR, pensarono di dover compiere azioni eclatanti. Sul volantino che rivendicava l’assassinio del giornalista comparivano parole che Antonio Gramsci scrisse su l’Avanti! nel 1916. La stessa citazione si ritrova nella “Risoluzione strategica” delle BR, già citata, risalente al febbraio 1978.
Il complotto serve, innanzitutto, a interpretare le stragi di Stato e il terrorismo neofascista. È un tema ampiamente utilizzato dagli scrittori italiani, soprattutto nell’ambito del noir, ma non esclusivamente. Questo filone narrativo si prefigge di offrire una versione alternativa alla realtà ufficiale, ritenuta insoddisfacente dal sentire generale della società italiana. A tal proposito, risultano interessanti le interviste di W. Veltroni a Tortorella e all’ex ministro Rognoni:
Veltroni: Tu ricordi episodi di guerra dichiarata dei sovietici al PCI?
Tortorella: Nessuno mi toglie dalla mente che i sovietici abbiano lavorato per far saltare il compromesso storico, per impedire a Berlinguer di realizzare la prospettiva della partecipazione al governo. E così si spiega l’attentato a Berlinguer in Bulgaria. E forse così si spiega anche l’addestramento delle BR in Cecoslovacchia.
Veltroni: Se Moro non fosse stato rapito, il PCI avrebbe votato la fiducia al governo Andreotti? Era un monocolore senza alcuna novità…
Tortorella: La notte prima, Moro aveva fatto arrivare, attraverso Luciano Barca, un messaggio a Berlinguer. Gli diceva di fidarsi di lui, che la composizione del governo era il prezzo da pagare per evitare una rottura nella DC, e che lui si faceva garante del programma.
Veltroni: Andreotti era un segno di assoluta continuità col passato…
Tortorella: Dopo le elezioni del ’76, Berlinguer disse a Moro di non indicare Andreotti. Lui rispose: “Andreotti è necessario per ammorbidire le resistenze degli americani”. Io non so se avesse ragione, perché il vero interlocutore degli americani era Cossiga. Andreotti, anzi, aveva delle sue autonomie, come dimostrava la sua politica in Medio Oriente.
In quegli anni, dice l’ex ministro Rognoni, il mondo era separato in blocchi e aree di influenza. «C’erano vincoli internazionali, appartenenze, alleanze militari; insomma, la Guerra Fredda. Per la Democrazia Cristiana, il PCI doveva essere combattuto e, allo stesso tempo, cooptato nel gioco democratico: da qui il riconoscimento di un’area, il cosiddetto arco costituzionale, dove fosse evidente la continuità di un legame tra tutti i partiti che avevano scritto la Costituzione. Un equilibrio non semplice, ma necessario, in un Paese di frontiera come l’Italia».
Veltroni: Moro era diventato il protagonista del progressivo allargamento della base democratica del Paese. Però Moro viene ucciso per far saltare il suo disegno?
Rognoni: «Ero convinto, e lo sono ancora, che il terrorismo delle Brigate Rosse fosse nazionale, italiano, non eterocomandato da un “grande vecchio”. Ho spesso discusso con Pertini; il Presidente riteneva che ci fosse una centrale straniera, vista la posizione geopolitica dell’Italia, al confine tra il Patto di Varsavia e la NATO.
Tanto è vero che, quando fu sequestrato il generale Dozier, mi telefonò preoccupatissimo: “Hai visto? Hai visto? Un generale americano”. Come ministro dell’Interno, io avvertivo l’assoluta necessità di seguire ogni congettura, nessuna esclusa. Il mio compito, dopo via Fani e la tragedia di Moro, era far sì che il Paese risalisse la china, sconfiggesse il terrorismo senza uscire dalla democrazia e senza imbarbarire lo Stato.
Ma la cosa grave non è stata la scelta della “fermezza”. Lo scandalo è stato che, per 55 giorni, non si sia riusciti a trovare la prigione di Moro. Il Presidente non era prigioniero, che so, in Alaska: era a Roma, nella capitale, e mandava continui messaggi dalla prigione. Che poi questa incapacità sia stata in qualche modo “aiutata” da chi era contro la politica di Moro e il suo ruolo nel concerto internazionale non è affatto da escludere. Troppo fitto era il bosco di personaggi inquietanti e pericolosi che ruotavano intorno all’intera vicenda».
Veltroni: Di Gladio, tu sapevi?
“No, non ne sapevo nulla. L’ho saputo quando, verso la fine di luglio del ’91, Andreotti andò in Parlamento a parlarne, a parlare e a dichiararne senza mezzi termini lo scioglimento. Gladio era l’espressione italiana di una segretissima organizzazione denominata Stay Behind. Subito scoppiò il finimondo, l’ira di Cossiga fu incontenibile, tutta la segretezza di Gladio andò in frantumi e le polemiche non cessarono.
Ricordi l’attentato del ’73 alla questura di Milano? A tirare la bomba fu quell’anarchico, che invece era stato in Gladio.
“Sì: anarchico e gladiatore, il Bertoli, e, se ben ricordo, informatore del Sismi”.
Quindi, nella ricostruzione degli eventi, l’argomento resta di dominio di due categorie: magistrati o “doppia magistratura” e giornalisti. I primi orientati alla ricerca di elementi di prova; i secondi diretti all’approfondimento del dibattito politico e agli scoop.
Finalità comunque diverse rispetto a uno studio storiografico. Il 27 febbraio 1960, il presidente USA R. Nixon, al seguito del consigliere per la sicurezza nazionale H. Kissinger, era in visita ufficiale in Italia. Insieme analizzarono la situazione italiana, la comparsa sulla scena del conflitto politico di nuove categorie, come ad esempio gli studenti.
Il presidente della Repubblica, G. Saragat, illustrò agli americani la possibilità che gruppi democristiani disposti a dialogare con il PCI, capeggiati da A. Moro, potessero spostare l’asse politico italiano.
A dare una sorta di suggello di ufficialità all’espressione “strategia della tensione” è probabilmente Aldo Moro, che usa il concetto nel memoriale scritto nella prigione delle BR:
“Per quanto riguarda la strategia della tensione, che per anni ha insanguinato l’Italia, pur senza conseguire i suoi obiettivi politici, non possono non rilevarsi, accanto a responsabilità che si collocano fuori dall’Italia, indulgenza e connivenze di organi dello Stato e della DC in alcuni suoi settori.”
Mentre di straordinaria importanza per le connessioni politiche e studentesche erano i due documenti sequestrati nell’abitazione del generale G. Maletti, l’uomo dei servizi legato ad Andreotti, che lo aveva preferito al generale V. Miceli come persona di fiducia nel SID, dopo che questi era stato sostituito dall’ammiraglio Casardi. Maletti, pur osservando la dovuta prudenza, ricostruì in questi documenti gli eventi salienti della strategia della tensione, con un richiamo al quadro politico connesso. È interessante notare che Maletti definì il 1968 “anno di rottura” e iniziò la sua analisi con la descrizione del “quadro politico interno (in cui) si accentua ed esaspera la crisi del centrosinistra”. Successivamente, Maletti spostò l’attenzione sul ruolo degli USA, con una censura alla linea scelta da Kennedy, ormai superata.
Il giudizio di Maletti era nettamente negativo sul centrosinistra in Italia, sostenuto da Kennedy. Subito dopo, prendeva in esame il quadro politico italiano in cui si inserivano le stragi, elencando tutti gli incidenti gravi imputati all’inerzia del presidente del Consiglio Rumor.
Un cenno all’attività del Fronte Nazionale nel 1970, mentre il 1971 veniva descritto da Maletti come l’anno del “mutamento al vertice del SID, dell’ufficio R e dell’ufficio D, che da uffici diventano reparti”. Si ammetteva inoltre l’esistenza di “linee politiche e politico-militari divergenti di Miceli e Maletti” (commissione P2, pag. 528).
Inoltre, l’ex generale Maletti, a Johannesburg, il 3 marzo 1997, rispondeva così ai due rappresentanti della Commissione Stragi:
PRESIDENTE Pellegrino, Commissione parlamentare d’inchiesta stragi
“Però, generale, questa non è una Commissione sulla storia dei Servizi. Noi siamo una Commissione sulle stragi e sulla mancata individuazione dei responsabili di esse. Nella proposta di relazione, a me sembrava che noi non avessimo elementi obiettivi che ci consentissero di individuare responsabilità istituzionali nell’eziologia delle stragi, cioè che ci fossero oggi elementi che ci consentano di dire con certezza che le stragi siano state ordinate, e che invece erano evidenti le responsabilità istituzionali per il fatto che i responsabili delle stragi non erano stati individuati. Le chiedo se questo è avvenuto e, in caso affermativo, se è avvenuto per un input politico o comunque per la volontà di acquisire meriti presso il potere politico, per cui c’era un potere politico che non aveva un interesse vero affinché si facessero giustizia e verità sulle stragi.”
MALETTI
“Credo che per qualche tempo, nel corso della mia direzione del reparto D, il potere politico non avesse alcun interesse a giungere a fondo nell’effettuazione delle indagini. Da un certo punto in poi, ritengo dal 1974 in poi, essendo cambiate le circostanze, essendo cambiato il vento, questo orientamento è mutato. Il potere politico si è interessato molto più attivamente delle vicende del Servizio, scaricando anche su di esso delle responsabilità che non aveva, ma imponendo al Servizio quello che prima non era mai stato imposto in modo preciso e organico, cioè la collaborazione con gli organi giudiziari.”
TASSONE. Lei ha parlato ora di assenza di volontà di controllo: intendeva riferirsi proprio a una specifica volontà, oppure all’impossibilità pratica di esercitare il controllo politico? Ancora, ritiene che ci sia stata, in qualche modo, anche una volontà di ritardare quella riforma dei Servizi, che è arrivata poi soltanto nel 1977? Penso anche al fatto che – come lei ha ricordato – per i primi anni ’70 la subalternità del Servizio italiano alla CIA era totale.
MALETTI. Per quanto riguarda l’interesse della CIA verso il nostro Servizio, posso dire che il SID subì le rampogne della CIA per la nostra modesta efficienza nel campo del controspionaggio; non altrettanto accadeva per quanto riguardava l’antiterrorismo. Bisogna tenere sempre presente che la subalternità verso la CIA era anche una questione di dipendenza economica. Tanto per fare un esempio, il centro di addestramento di Alghero fu realizzato (acquisto dei terreni e costruzione degli edifici) interamente a spese della CIA.
Avrebbero dovuto essere i “servizi” in difesa degli interessi nazionali: si sono dimostrati alla stregua di strutture votate all’insicurezza, enti preposti al depistaggio e alla deformazione della verità. Hanno portato il Paese in una situazione di eversione permanente. Ecco perché in Italia non esistono più segreti. Abbiamo dovuto inventare il concetto di “servizi deviati” perché l’opinione pubblica potesse immaginare l’esistenza di due volti contrapposti della sicurezza interna: uno a difesa delle istituzioni, l’altro al servizio di chissà quali entità esterne, malvagie e misteriose.
La regola non scritta è la consegna del silenzio; intere generazioni di politici italiani sono state soggiogate dalla minaccia che qualcuno dei servizi potesse parlare.
Sono questi gli elementi che da sempre accompagnano il corso della vita sociale, economica e politica del Paese.
Certo, non mancano le eccezioni. A testimoniarlo, per esempio, il sacrificio dell’amico Nicola Calipari, il generale del Sismi, ucciso da soldati americani a Baghdad nel marzo del 2005.