Stato Laico e Laicità

(Letti le ultime dichiarazioni/intromissioni del card Zuppi e del Papa )

La laicità è la rivendicazione – da parte di un individuo o di una collettività – dell’autonomia decisionale rispetto a qualsiasi condizionamento ideologico, morale o religioso esterno.

Di conseguenza, la laicità è l’atteggiamento con cui lo Stato, da un lato, garantisce la libertà di culto ai fedeli di ogni religione e, dall’altro, mantiene la propria neutralità: condizione indispensabile per una convivenza plurale.

In sostanza, la laicità coincide con il buon senso, con il pragmatismo, con l’agire da persone di buona volontà.
Essere laici significa applicare gli stessi parametri razionali nei rapporti con il prossimo e nell’affrontare le questioni che riguardano la vita.

Il principio di laicità ispira anche la normativa comunitaria e, soprattutto, il recente Trattato costituzionale europeo.

Il nodo delle ingerenze ecclesiastiche

La questione si è riaccesa dopo le dichiarazioni del presidente della CEI, card. Matteo Zuppi, che – in chiusura dell’assemblea generale dei vescovi italiani e poi alla 50ª Settimana sociale dei cattolici a Trieste – ha espresso perplessità sulla riforma del premierato, ricordando che «la Chiesa parla perché è libera e guarda con amore a tutti: di tutti è amica e preoccupata, nessuno è per lei nemico».

Eppure, il 4 luglio, il Dicastero per la Dottrina della Fede ha comminato la scomunica latae sententiae a mons. Carlo Maria Viganò, già nunzio negli Stati Uniti, per la sua aperta “ribellione” al Pontefice.
Analogamente, si registrano il trasferimento in Lituania dell’ex segretario di Benedetto XVI, mons. Georg Gänswein, e la sospensione del monastero delle clarisse: episodi che segnalano tensioni interne.

Lo storico ed ex direttore dell’«Osservatore Romano» Gian Maria Vian ha parlato di «deriva inaccettabile», osservando che fa uno strano effetto risentire parole come scomunica e scisma, che sembravano confinate ai libri di storia medievale.

Nel contempo, l’arcivescovo di Cosenza, Gianni Cecchinato, ha definito l’autonomia differenziata «secessione dei ricchi». Dimentica, però, che appartenere alla Chiesa significa condividere la logica del Vangelo, non interferire nella politica italiana – interferenza che sta diventando consuetudine, mentre pochi vi prestano attenzione.

La laicità della Repubblica è sancita con chiarezza dalla Costituzione, e in passato anche illustri esponenti democristiani l’hanno difesa con fermezza. Gli ultimi governi, invece, hanno mostrato una preoccupante mitezza di fronte alle «incursioni papali».

Così, ogni giorno assistiamo a invasioni di campo di alti prelati che, dalla sponda cardinalizia o da quella vescovile, intervengono nel dibattito pubblico, ben consapevoli che l’Italia, Paese a maggioranza cattolica, è fortemente influenzabile da ciò che la Chiesa dice – o, ancor più, da ciò che tace.

Gli affari della Penisola sono ormai gestiti prevalentemente dalla CEI, al punto da far pensare alla nascita di una terza Camera accanto a Montecitorio e a Palazzo Madama. È composta da oltre 300 vescovi, finanziata dallo Stato tramite l’8 per mille e sostenuta da una vasta rete di quotidiani, settimanali, stazioni radiofoniche e siti web. Ha progressivamente ampliato il raggio dei suoi pronunciamenti e si è attribuita il diritto di intervenire, con giudizi e prediche, in tutte le vicende politiche e sociali italiane.

L’Italia è uno Stato laico, ma ospita il Vaticano: ciò ha sempre posto – e pone tuttora – limiti alla laicità, con pesanti e ripetute pressioni sui politici più legati alla Chiesa per fede religiosa, di fatto ostacolando la libertà d’azione del governo. Il condizionamento ecclesiastico attraverso esponenti clericali presenti nei partiti è, in Occidente, una triste e singolare caratteristica italiana.

Aveva dunque ragione l’ex ambasciatore Sergio Romano quando, nel suo aureo libretto Libera Chiesa. Libero Stato?, ricordava che il Vaticano, dopo aver “ricattato” la DC («obbedite alle nostre direttive o daremo la benedizione ai gruppi dissidenti»), è divenuto paradossalmente ancora più forte con la fine della Democrazia cristiana, grazie anche all’influenza – cresciuta durante il pontificato di Giovanni Paolo II – di movimenti laici d’ispirazione cattolica come Comunione e Liberazione, i Focolari e l’Opus Dei.

Che dire poi del “metodo Bergoglio”, il pontefice che parla da politico? Nel 2016, durante la campagna elettorale statunitense, affermò a proposito di Trump: «Votarlo o non votarlo? Non mi immischio, dico soltanto che non è cristiano se davvero ha parlato così» (riferendosi ai muri).

Nel 2013, nell’omelia a Santa Marta, papa Francesco disse del rapporto fra Chiesa e politica: «Un buon cattolico si immischia in politica», ma precisò subito: «Offrendo il meglio di sé affinché il governante possa governare».

Si ricordino inoltre la Nota dottrinale riguardante l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, indirizzata a vescovi, politici cattolici e fedeli laici, e le frequenti prese di posizione su riforme istituzionali e temi sociali.

In conclusione, la Chiesa dovrebbe indicare valori sul filo della fede senza suggerire – con sottolineature esplicite – orientamenti di voto, ricordando il suo primario magistero di spiritualità ed evangelizzazione.

Non si tratta di essere “contro” o “prevenuti”, ma di riflettere sui condizionamenti che subiamo, sulle pressioni a cui sono sottoposte le “sacre famiglie” ascoltando omelie nei palazzi‑chiesa. È una responsabilità che dovrebbero avvertire non solo le coscienze più sensibili del mondo cattolico, ma anche quel ceto politico sinora sordo a una visione laica e liberale dello Stato per ragioni opportunistiche e strumentali.

Occorre affrancarsi dall’influenza della Chiesa e dei clericali nei partiti, restando attenti alle voci “dissonanti”; altrimenti ci si sentirà sempre «stranieri nell’istituzione Chiesa», continuando a scrutare, invano, l’aurora che tarda a manifestarsi nonostante le invocazioni.

Con questo post si desidera esprimere la propria opinione: abbiamo bisogno di dialogo, non di provocazioni o di voci “limitate”. Non si può restare a guardare mentre qualcuno, con disinvolta arroganza, calpesta le regole e nega agli altri il diritto di parola con pari dignità.

Forse una colpa, nostra e dello Stato, esiste: non aver creato le condizioni ideali per favorire un processo di crescita culturale che conduca al dialogo, al rispetto dell’altro, alla tutela della dignità umana.

Un esempio viene da Filippo Bruno – che, entrando nell’Ordine domenicano, si chiamò Giordano – e dal suo ultimo dialogo con Sagredo: un inno alla ricerca della verità e al “maestro interiore”. Ne resta il celebre monito:

«Verrà un giorno in cui l’uomo si desterà dall’oblio e comprenderà chi è davvero, e a chi ha ceduto le redini della sua esistenza: a una mente fallace e menzognera che lo tiene schiavo. L’uomo non ha limiti e, quando se ne renderà conto, sarà libero anche in questo mondo.»

Bruno fu condotto al rogo con la lingua serrata, perché non parlasse. Forse – chissà – il cardinale Zuppi lo ignora.

Pensare liberamente

Occorre “una spremuta salutare di pensiero”. Bisogna cercare di più, non accontentarsi dell’esistente. Sono scelte esigenti: l’atteggiamento di chi vuole testimoniare la verità e i valori deve lasciare indietro paure e preoccupazioni per camminare verso strade più ampie, remare verso rotte nuove. Ecco perché serve la neutralità religiosa dello Stato.

Non credo nei dogmi, ma studio la storia delle religioni e rispetto chi crede – di qualsiasi fede. La religione, la spiritualità di una persona, è fatto privato, personale. E tale deve restare: lo Stato non c’entra.

Se vogliamo un confronto sano, capace di garantire equità fra chi ha fedi diverse, chi non crede e la cittadinanza tutta, dev’esserci assoluta laicità dello Stato.

Dove sono finiti i liberi pensatori?

Vale ancora il motto cavouriano: “Libera Chiesa in libero Stato”. Benedetto Croce, laico e agnostico, riconosceva nel saggio Perché non possiamo non dirci cristiani il valore etico‑culturale del cristianesimo, ma definì i Patti Lateranensi «sfacciata prepotenza pretesca».

«La Chiesa è stanca: in Europa del benessere e in America la nostra cultura invecchia, le chiese sono vaste, le case religiose vuote, l’apparato burocratico lievita, i riti e gli abiti sono pomposi. Ma esprimono ciò che siamo oggi? Il benessere pesa.»
— card. Carlo Maria Martini, S.J.

È normale che il cardinale Bagnasco percepisca 3 000 € al mese dallo Stato italiano per tre anni di servizio come cappellano militare?
Lo stesso presidente della CEI affermò: «Pedofilia: i vescovi decidono di non denunciare; lo facciamo per tutelare la privacy dei minori».

Serve riflettere su questi condizionamenti — per lo Stato, per la Chiesa, per i credenti e per i non credenti — nella prospettiva di una vera laicità e di un autentico dialogo civile. Giudicate voi.

Il filosofo Aristippo aveva ben compreso che gli uomini non amano le parole vere, ma apprezzano quelle compiacenti. Politica, religioni e istituzioni sono diventate l’arte di trovare le parole che la maggioranza vuol sentirsi dire, senza curarsi che siano vere o false, se si realizzeranno o se saranno presto dimenticate.

Che cosa resta, 95 anni dopo (11 febbraio 1929), della firma dei Patti Lateranensi tra il cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato di Pio XI, e il capo del governo, Benito Mussolini? L’accordo intendeva porre fine a ottant’anni di tensioni fra Chiesa e Stato italiano; per un secolo, infatti, il destino del potere temporale del Papa, del Vaticano e della stessa città di Roma era rimasto incerto.

Numerosi gli episodi di quel braccio di ferro:

  • la fuga di Pio IX da una porticina segreta del Quirinale per rifugiarsi a Gaeta presso i Borbone di Napoli;
  • l’interregno della Repubblica Romana e la restaurazione papale grazie alle armi del “traditore” Napoleone III;
  • la breccia di Porta Pia.

In quegli anni diversi protagonisti tentarono di instaurare un dialogo fra lo Stato della Chiesa e la nuova Italia dei Savoia.

Nel 1929 furono infine sottoscritti i Patti Lateranensi, articolati in tre parti:

  1. il Trattato, che istituiva lo Stato della Città del Vaticano;
  2. il Concordato, che regolava i rapporti fra Santa Sede e Regno d’Italia;
  3. l’Accordo finanziario, che stabiliva un indennizzo a favore della Chiesa per la rinuncia a qualsiasi rivendicazione sullo Stato Pontificio.

Tuttavia, il 14 maggio, durante la discussione alla Camera sulla ratifica, Mussolini – ricordando che i Patti non erano ancora legge – affermò che, se il cristianesimo delle origini era divenuto la Chiesa di Roma, lo si doveva ai fasti dell’antico impero: esso aveva esteso il proprio controllo sul mondo, e così – come racconta G. Mazzuca – il duce sottraeva alla religione ogni aspetto trascendente.

Nel 1984, quando il presidente del Consiglio era Bettino Craxi, fu promossa la revisione del Concordato. La Costituzione della Repubblica conteneva infatti una contraddizione: da un lato, l’art. 3 affermava che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, indipendentemente dal credo religioso; dall’altro, l’art. 7, richiamando i Patti Lateranensi, riconosceva il cattolicesimo come religione di Stato.

Con il “Concordato bis”, firmato da Craxi e dal cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato di Giovanni Paolo II, i Patti furono adeguati per ridurre le ingerenze reciproche. L’accordo fu appoggiato dal PCI di Enrico Berlinguer, che ricalcò le posizioni di Togliatti, favorevole alla revisione.

Le principali novità furono:

  • l’abolizione della clausola che indicava il cattolicesimo come religione di Stato;
  • la facoltatività dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche;
  • il nuovo sistema di sostentamento economico del clero: dal 1985 venne introdotto il meccanismo dell’8 per mille in sostituzione dell’onere diretto a carico dello Stato.

Oggi ci si chiede quale sia l’eredità di quei Patti, che cosa resti dello “spirito del Concordato” e come si delinei il futuro dei rapporti fra Stato e Chiesa.

Giudicate voi.

Premesso: se non è consentito a noi di esaminare e studiare ciò che avete affermato nelle giornate di Trieste; se la vostra autorità, in questo caso, teme che si indaghi con attenta giustizia cristiana; se, infine – come sempre accade – si chiude la bocca alla difesa laica, sia concesso almeno alla verità di giungere alle vostre orecchie tramite una muta difesa.

Essa sa di vivere da straniera in questo Paese.

Che cosa hanno da temere, in questo caso, le vostre norme – sovrane nel vostro Stato – se la verità viene ascoltata?

«Democrazia, la scossa del Papa: “Sì a voci di denuncia e proposta”» titola Avvenire di martedì 9 luglio.

Se la democrazia è malata, i cattolici non possono restare a guardare: devono coinvolgersi, partecipare, indicare temi e programmi di azione a favore del bene comune. In sostanza, ripartire dal “noi”, di fronte a correnti di pensiero che esaltano l’“io” a tutti i costi.

Tutto ciò, però, si configura come un’intromissione nelle leggi di un altro Stato.

Allora, mi chiedo e vi domando: dove è finito l’orgoglio dei liberi pensatori nel promuovere la laicità e il libero pensiero?